L’Idealismo
L’Idealismo
nasce da un dibattito che segue alla grande filosofia di Kant ed è tutto
interno alla Germania cioè alla filosofia tedesca.
Il
dibattito è sulla “COSA IN SÉ” quello che avevamo chiamato il NOUMENO, per
distinguerlo dal FENOMENO. Il Noumeno è la cosa in sé, come è davvero, il
Fenomeno è ciò che percepiamo noi del noumeno, che vediamo esterno a noi.
La
filosofia kantiana è una filosofia dualista, da una parte c’è il soggetto
conoscente e dall’altra l’oggetto conosciuto. Da un lato c’è ciò che dell’oggetto
appare, cioè il fenomeno, che il
soggetto conosce e dall’altra parte c’è la
cosa in sé, il noumeno,
pensabile ma non conoscibile.
Gli
idealisti scorgono in questa filosofia di Kant una contraddizione fondamentale
e in filosofia “ciò che è contraddittorio non esiste”.
Kant
affermava che noi dobbiamo accontentarci di esplorare e capire la sola
“isoletta” dei fenomeni che ci è consentito di capire e non avventurarci oltre,
cioè nel mare della metafisica, perché con essa non si potrà mai avere scienza
(intendendo per scienza: cose dimostrabili con la ragione pura). Diceva anche
però che “le cose esistono anche se non le conosciamo o non siamo in grado di
conoscerle”. Kant infatti non è come Berkeley un immaterialista (le cose non esistono nella
realtà perché l’essere è solo il venir percepito). Per Kant l’essere c’è, le
cose ci sono, ma le cose in sé, cioè come esse sono davvero, non lo sapremo
mai.
Gli
idealisti contestano a Kant questo noumeno, questa cosa in sé, che è solo
pensabile e non conoscibile, perché di fatto Kant ha dichiarato che esiste.
Ha detto
poi chiaramente che il fenomeno (ciò che noi conosciamo delle cose) è causato
dal noumeno. Cioè il noumeno (la cosa in se stessa) è la causa del fenomeno che
mi appare. Anche qui Kant applica una delle 12 categorie dell’intelletto alla “cosa
in sé”, al noumeno. Vengono cioè applicate le categorie alle cose che non
possiamo conoscere e non ai soli fenomeni, come aveva sempre affermato. Gli
idealisti, dopo queste valutazioni, dichiarano che le “cose in sé” non esistono
e che le tesi di Kant della “cosa in sé” (il noumeno) sono contraddittorie e
quindi non vanno prese in considerazione.
L’idealismo afferma che non
esiste nulla al di fuori del pensiero.
Esiste una e una sola realtà e che
questa una e sola realtà è il pensiero, le idee. Rivediamo il percorso
che è stato fatto.
Cartesio era partito dalla
prospettiva che le cose potevano non esistere, perché tutto poteva essere solo una
personale rappresentazione. Gli idealisti anche qui vedono una contraddizione,
se Cartesio parla di rappresentazione, parla della rappresentazione di qualcosa
che esiste. Cartesio diceva che esiste il pensiero, la sostanza, la “res
cogitans”. Da questo pensiero si arriva all’esistenza di Dio (essere perfetto e
per questo deve esistere). Dio per Cartesio è allora il garante che ci assicura
che fuori da ciascuno di noi ci sono le cose.
Bercheley, applicando il rasoio di Ockham, dice di non moltiplicare
indebitamente gli enti. Non servono i tre elementi: il pensiero, Dio e il
mondo. Bastano il pensiero e Dio. Dio trasmette al pensiero i contenuti che
sono la nostra realtà. Dio è il produttore e non il garante delle nostre
impressioni, cioè delle cose fuori di noi. Berkeley afferma che non esiste solo
il pensiero, ma esiste anche Dio. Il pensiero è un ricettore di ciò che Dio
trasmette. Dio esiste, ma è esterno al pensiero, esiste al di à del pensiero.
La filosofia greca e quella medioevale, fino a Cartesio, era
ed è realista. È più che convinta che ciò che pensiamo è anche ciò che c’è in
verità, che fra pensiero e realtà non c’è contrapposizione, che quello che vediamo
della realtà è la realtà com’è e su questa appoggia tutti i suoi ragionamenti e
dimostrazioni.
La filosofia moderna ribalta tutta quanta la filosofia realista. C’È SOLO IL PENSIERO. Quello che noi vediamo
della realtà non è la realtà stessa ma è una nostra personale rappresentazione,
il nostro pensiero. Tra noi e le cose c’è di mezzo l’idea e la nostra
immaginazione. La sentenza di Kant che afferma che noi vediamo le cose solo
come ci appaiono nella nostra mente, nel nostro pensiero, ma che comunque
esistono al di là del pensiero è completamente negata dagli idealisti che
affermano con forza che C’È SOLO IL PENSIERO.
L’Idealismo tedesco. Questi idealisti, con la loro logica tedesca, traggono la
conseguenza: La realtà è il solo pensiero. Non c’è nulla fuori dal pensiero. Il
pensiero è il tutto. Pensiero ed essere
sono la stessa cosa visto che esiste solo il pensiero. C’è un’unica e sola
realtà.
Siamo arrivati ad una filosofia che si può definire la più
lontana dal buon senso comune e dalla saggezza dei greci e dai medioevali, cioè
dalla loro teorica e pratica filosofia realista.
intesi del Realismo. Il realista muove dal presupposto che il mondo e i suoi
componenti esistano indipendentemente dal soggetto conoscente e che le cose
osservate, nonché le leggi di natura scoperte dagli scienziati, siano
direttamente correlate con la realtà. Le teorie realiste descrivono esseri ed
oggetti che esistono indipendentemente dagli osservatori, esse sono vere di per
sé, e sono di fatto strumenti di apprendimento e di esperienza di ciò che ci
circonda realmente.
Sintesi dell’Idealismo. L’idealista muove dal presupposto che non esiste alcunché al
di fuori della pensabilità e la eleva a criterio unico di conoscenza. Quella
che chiamiamo realtà o mondo è un sogno elaborato, una idea,
risultante delle reazioni del nostro cervello a un qualcosa di esterno che non
sarà mai intelligibile e analizzabile; una nostra costruzione, una “realtà
inventata”. Il cervello infatti è come un sistema chiuso, quindi non
in contatto diretto con l’esterno, elabora gli stimoli che gli pervengono dal
di fuori nei vari linguaggi dei recettori sensoriali, sicché tutta la
conoscenza è produzione, attivazione e manipolazione di simboli.
Il Romanticismo (primi 30-40
anni dell’800)
È influenzato dall’idealismo e a sua volta alimenta l’idealismo. Negli
ultimi anni del ‘700 l’illuminismo va in crisi e nasce in contrapposizione
ad esso in Germania, diffondendosi poi in tutta Europa, il Romanticismo.
Questa nuova corrente tocca tutti i campi del sapere. Sono gli anni
delle conquiste napoleoniche e l’area tedesca è già in parte
occupata ed è presente un forte spirito anti-napoleonico e anti-francese
(= cultura anti-illuminista). La fiducia, che l’illuminismo aveva nella
ragione, va in crisi.
ILLUMINISMO: esaltazione della ragione e della scienza (ciò che ci
accomuna)
ROMANTICISMO: esaltazione dei sentimenti e delle passioni (ciò che ci
differenzia)
Dobbiamo tenere presente che il passaggio dall’uno all’altro non è però
stato così netto: anche gli illuministi ritenevano importante il sentimento
(Kant, Critica del giudizio, Rousseau, ecc.); e i romantici non condannavano la
ragione “tout court”, criticavano si la ragione illuministica e l’intelletto
scientifico kantiano, ma volevano farsi anche portatori di un nuove istanze:
A. La RAGIONE
SPECULATIVA e DIALETTICA capace di cogliere la realtà nel suo tutto e non
rimanere ferma e impotente di fronte alle antinomie e alle opposizioni. L’intelletto
kantiano invece si arrende di fronte ad esse poiché sostiene che noi non siamo
in grado di conoscere il noumeno. La ragione speculativa e
dialettica è in grado di cogliere la realtà come una totalità, ossia
di cogliere sia il positivo sia il negativo attraverso una sintesi, che è una
sorta di mediazione tra le due.
B.
La RIVALUTAZIONE DELLA STORIA E DELLA RELIGIONE (viene rivalutato molto
il Medioevo) entrambe svalutate durante l’illuminismo poiché la storia era
considerata come un insieme di errori e la religione come una
superstizione (gli illuministi erano deisti, avevano cioè un’idea
di Dio puramente razionale e ostile a riferimenti nella rivelazione divina).
C.
La TENSIONE VERSO L’INFINITO: l’uomo è una creatura finita che per sua
natura risente di una tendenza verso l’infinito, esplicitata con una sorta
di ribellione alla realtà e il desiderio di andare oltre, verso un
mondo indeterminato. Da essa deriva la psicologia (o malattia) romantica, ossia
un atteggiamento di irrequietezza interiore, inquietudine e nostalgia (infinito
come qualcosa che ci è già appartenuto).
D. CONCEZIONE MATERIALISTICA
DELLA NATURA: gli illuministi la concepivano come un meccanismo
da studiare razionalmente, mentre i romantici avevano una concezione
panteistica della natura (Dio presente in essa, ritorno a Spinoza): concepivano
la natura come una realtà vivente.
E.
IL CONCETTO DI “NAZIONALITÀ”
Riguardo alla stato
facevano la stessa operazione che
applicavano all’individuo (esaltazione dell’aspetto che distingue l’individuo
dagli altri uomini: i suoi sentimenti) e infatti non sostenevano più il
cosmopolitismo illuminista (uomo = cittadino del mondo), ma esaltavano la
singola nazione, sottolineando i singoli aspetti caratterizzanti la singola
nazione. (NAZIONE = sorta di individuo, con una individualità storico-politica).
Da qui una convinta difesa ed esaltazione dell’autonomia e dell’indipendenza
della nazione.
L’Idealismo tedesco
È l’ASPETTO FILOSOFICO del Romanticismo. Questa corrente filosofica
romantica (che riduce la realtà ad un’idea) nasce nei primi decenni dell’800 in
Germania e ha 3 grandi esponenti:
1) FICHTE, 2) SCHELLING, 3)
HEGEL
L’idealismo tedesco supera
definitivamente il realismo filosofico, cioè l’idea che ci sia una realtà fuori
dal pensiero, comprese realtà spirituali e Dio stesso. Non c’è altra realtà che il pensiero. È una forma di monismo, cioè
è una filosofia monista e non dualista come quella di Kant. Esiste una sola
realtà omnicomprensiva e questa è tutta e solo pensiero.
Mentre per Cartesio Dio è garante della
realtà, per Berkeley Dio è il produttore delle nostre impressioni, per
l’idealismo c’è un ‘unica e sola realtà e Dio è l’unica realtà che esiste. È
una forma di panteismo spiritualistico,
tutto è Dio. Il nostro pensiero è una manifestazione di questa unica sostanza
che esiste e che richiama la “physis” omnicomprensiva. Tutto è nel pensiero. È
una forma di immanentismo, per il
quale non esiste un 'al di là' rispetto alla realtà che
conosciamo e questo significa identificare Dio con il mondo, rifiutando quindi
il 'trascendente'. Non c’è nulla che trascende in questa unica e sola realtà.
Johann Fichte (1762-1814)
Vita e opere
Povero, riesce però a
studiare teologia grazie a un benefattore, affascinato da Kant, si reca da lui e ne diviene amico. Professore
universitario, si dimette con accuse di ateismo. Nel 1808, incita i giovani con
i Discorsi alla nazione tedesca, dopo
che le campagne napoleoniche hanno smembrato la Prussia. Nel 1813 si unisce ai
combattenti nella battaglia di Lipsia con la quale la Germania ebbe la riscossa
contro Napoleone; ma prende dalla moglie, che cura i feriti negli ospedali, una
febbre epidemica e muore nel 1814. Opere: Discorsi
alla nazione tedesca; Fondamenti della
dottrina della scienza.
Il pensiero
Fichte elimina la necessità della cosa in sé (noumeno) di cui
parlava Kant: infatti non ha
senso ammettere l'esistenza di una realtà che si trovi oltre i nostri limiti
conoscitivi. Per poter parlare di qualcosa è necessario averne una
rappresentazione mentale, ovvero uno schema trascendentale, secondo quanto
insegna la stessa Critica della ragion pura; come si
può dire, pertanto, che esiste un oggetto se non lo posso ridurre alle forme a
priori di un
soggetto conoscente? Ne consegue che il fenomeno non è più un limite causato
dall'inconoscibilità del noumeno, ma diventa una creazione del soggetto stesso.
È così che si pone l'Idealismo: la realtà fenomenica è un prodotto del
soggetto pensante, in contrapposizione al realismo, secondo
il quale gli oggetti esistono indipendentemente da colui che li conosce. Fichte
reinterpreta l'Io penso kantiano
in senso trascendentale come la
possibilità formale non solo del sapere ma anche dell'essere: l'Io si pone un limite ontologico per affermare la sua libertà e la sua dimensione infinita.
Fichte,
grande ammiratore di Kant, passa dal campo gnoseologico (della conoscenza) a
quello ontologico (dell’essere). Ricordiamo che l’“io penso” di Kant era una
super categoria, ma questa non era un assoluto, dipendeva dalle cose. Fichte
osserva che questo “io penso” che aveva intuito Kant, non è qualcosa di
conoscitivo (gnoseologico), ma è l’essere stesso (ontologico), esiste solo l’io,
solo il pensiero, solo il soggetto. Non c’è più l’oggetto. È un io assoluto,
del quale noi siamo una manifestazione (o parte dell’assoluto). Assoluto, cioè
finito e completo in se stesso. (Assoluto
infatti deriva dal latino “absolutum”: parola che veniva posta alla fine di un'opera
importante insieme alla data e al luogo di stampa, per significare che era
terminata, compiuta).
La
filosofia moderna sfocia così nell’idealismo che afferma che esiste solo il
soggetto. Non esiste nulla al di fuori del soggetto. Tutto quello che esiste è
produzione dell’io, è produzione del pensiero. Non c’è nessun Dio garante, non
c’è nessun Dio che proietta le cose nel nostro pensiero. È il nostro pensiero
che produce tutto ciò che è.
Fichte nella sua opera,
la “Dottrina
della scienza” (il vero sapere), di cui farà molte riedizioni, dice
sostanzialmente che ci sono tre principi che sostengono il vero sapere:
1. Principio: l’io, è l’unica realtà esistente. L’io si
autocrea. Il pensiero è una attività autocreatrice, che si autoimpone, che non
ha bisogno di altri per esistere. Se non fosse così chi l’avrebbe creato?
Qualcosa di esterno? Ma abbiamo escluso che ci sia qualcosa di esterno al
pensiero. Esiste una e una sola realtà, il pensiero. Il pensiero è energia, è
vitalità, è attività è generatore di se stesso. Pensiamo a quando ci viene in
mente un’idea. Ne consegue che per attivarsi il pensiero ha bisogno di pensare
a qualcosa, anche perché se non penso non esisto.
2. Principio: l’io, per poter esistere e pensare a
qualcosa, ha bisogno di qualcosa di diverso da sé (di esterno da sé): il “non
io”. Il pensiero per esistere ha bisogno di un contenuto che può solo venire
dal “non io”. Non posso pensare a niente, debbo pensare per forza a qualcosa e
questo qualcosa deve venire da qualcos’altro che si oppone all’io, cioè da un “non io”, da
un “fuori di me”. Per attivarsi il mio pensiero ha bisogno di pensare a qualcosa
che viene da fuori di me (annotiamo subito che qui Fichte si contraddice alla
grande, perché di fatto ritira in ballo la “cosa in sé”, il noumeno, cioè il
dualismo di Kant, che ha appena combattuto).
3. Principio: l’io divisibile, l’io finito e l’io infinito.
L’io, per Fichte , ha bisogno del “non io” per attivarsi e per capire che dopo
ci dovrà essere un altro “non io” come nuovo stimolo per attivarsi e andare
ancora oltre, verso un nuovo “non io”, sempre finito, limitato (divisibile dirà
Fichte), ma che comunque sarà un altro mattoncino che farà parte di un infinito
a cui tendiamo inesorabilmente.
Hegel dirà di Fichte:
“la sua è una cattiva infinità” è cioè un continuo imporre un “non io”
all’infinito senza ma i concludersi. Perché l’io ha sempre bisogno di opporsi
ad un “non io” per poter esistere e attivarsi. A torto Fichte è considerato un
idealista, perché di fatto è un dualista come Kant. La filosofia moderna porta
di fatto a considerare l’io come qualcosa impegnato a fondo a superare continui
ostacoli e ad affermarsi. Un io che ogni volta che raggiunge i suoi limiti si
attiva per superarli e per superarsi. Il finito che si perde nell’infinito e
che capisce che anche lui è parte dell’infinito. Il Romanticismo è specchio di
questa filosofia e questa filosofia è specchio del romanticismo.
La
filosofia della libertà
Fichte si definisce
filosofo della libertà, perché avendo dimostrato che l’io è creatore di se
stesso, che l’io si pone sempre limiti da oltrepassare, che l’io ha quindi un
compito morale infinito e quindi che l’io non può che essere libero. La
filosofia idealista è la filosofia della libertà.
La filosofia realista
diceva che c’è un essere fuori di noi e che siamo noi ad adeguarci a come le
cose sono. La filosofia realista era una filosofia che ci faceva credere che le
cose esistono così come le vediamo o le tocchiamo o le pensiamo. La filosofia
realista è quindi una filosofia
dogmatica perchè definisce come dogmi delle verità non dimostrabili (con
riferimento esplicito a san Tommaso, che invece le sue verità le ha dimostrate proprio
con il più rigoroso uso della ragione). Fichte usa in modo improprio e scorretto,
e con valenza negativa e dispregiativa, il termine “dogma” che significa invece
“principio certo e inconfutabile di fede” e non applicabile ad una filosofia.
La filosofia realista,
ribattezzata ora filosofia dogmatica,
è per Fichte anche la filosofia dei deboli, di chi ha bisogno di aggrapparsi a
qualche certezza perché ha paura di ragionare con la propria testa e di
guardare in faccia la verità, perchè c’è sempre un limite da oltrepassare e che
siamo noi i produttori della realtà. Esiste quindi una forte contrapposizione
fra filosofia della libertà e filosofia realista e che Fichte si ostina a definire
contrapposizione fra Idealismo e Dogmatismo: “Solo chi abbraccia la filosofia della libertà e abbandona i dogmatismi
è un essere libero”.
La cosa più naturale di
questo mondo, cioè l’esistenza delle cose, è diventato un dogma, una sorta di
imposizione. Il grande scrittore inglese Chesterton, cattolico ex anglicano,
dirà “verrà un giorno in cui bisognerà
sguainare la spada per dire che l’erba è verde”.
L’Immaginazione produttiva
Noi
comunque abbiamo la percezione che le cose esistano indipendentemente da noi,
che non siamo noi a produrle. Fichte risponde a questa osservazione dicendo che
ciò avviene in maniera inconscia e la chiama immaginazione produttiva. Noi
siamo i produttori della realtà esterna a noi, solo che questo avviene in
maniera inconsapevole e questo ci fa sembrare che le cose esistano anche senza
di noi. È come nel sonno nel quale noi produciamo il sogno in modo inconscio.
Quando non sogniamo è come se non avessimo vissuto. Il nostro cervello si
attiva solo quando creiamo un contenuto, un qualcosa diverso dal sé, un “non
io”. Il pensiero che produce il pensato.
La morale di Fichte
Fichte,
che amava molto anche la Critica della ragion pratica di Kant, è considerato
anche un pensatore morale, infatti affermava nella sua opera “Discorsi alla nazione tedesca” che: “… noi tedeschi siamo i primi ad aver capito
che non c’è niente al di fuori del pensiero. Siamo i primi ad aver elaborato
una filosofia della libertà, la libertà dell’io che crea il mondo. Noi tedeschi
abbiamo allora una missione. Noi siamo coloro che dovranno insegnare al mondo
che siamo il popolo della libertà. Abbiamo una missione civilizzatrice della
Germania…”
Dal testo scolastico
del prof. Nicola Abbagnano (1901 – 1990) insigne filosofo laico che ha elaborato una visione della
ragione filosofica alternativa tanto al marxismo che al pensiero
cattolico ricaviamo a
proposito del tema principale dei “Discorsi
alla nazione tedesca”, cioè l’Educazione, quanto segue:
“… Fichte ritiene infatti che il mondo moderno chieda una nuova azione
pedagogica, capace di mettersi al servizio, non già di una élite, ma della
maggioranza del popolo e della nazione. Fichte sostiene che soltanto il popolo
tedesco risulta adatto a promuovere la nuova educazione, in virtù di ciò che
egli chiama il carattere fondamentale e che identifica nella lingua. Infatti i
tedeschi sono gli unici ad aver mantenuto la loro lingua, che fin dall’inizio
si è posta come espressione della vita concreta e della cultura del popolo, a
differenza per esempio di quanto è avvenuto in Francia e in Italia dove i
mutamenti linguistici e la formazione di dialetti neolatini hanno provocato una
scissione fra popolo, lingua e cultura. Per questo i tedeschi, il cui sangue
non è commisto a quello di altre stirpi, rappresentano l’incarnazione di un
popolo primitivo rimasto integro e puro. Sono gli unici a potersi considerare
un Popolo, anzi, il Popolo per eccellenza. I tedeschi sono anche gli unici ad
avere una patria, a costituire una unità organica, che si identifica con la
realtà profonda della nazione. I tedeschi hanno quindi l’impegno morale di
civilizzare gli altri”.
Abbagnano prosegue
facendoci osservare che: “Il primato che “Fichte
assegna al popolo tedesco non è di tipo politico e militare, ma piuttosto di
tipo spirituale e culturale. Fichte ritiene che il popolo tedesco debba avere
come interesse ultimo l’umanità intera. I fini di quest’ultima sono i valori
etici della ragione e della libertà. Ma tutto ciò, se da un lato scagiona il
discorso da un affrettata interpretazione in senso pangermanista o razzista,
dall’altro non toglie che la l'influenza storica maggiore si sia esercitata
proprio in questo senso, nel pangermanesimo (Orientamento politico e
culturale che aspirava all'unificazione nazionale di tutti i popoli di lingua
tedesca). Infatti i discorsi
parlano di primato, di missione, di popolo integro. In seguito queste convinzioni hanno potuto costituire un testo
chiave non solo del patriottismo, ma anche dello sciovinismo tedesco cioè di un
nazionalismo fanatico ed aggressivo. Questo ha portato l’originaria
supremazia spirituale in una supremazia di razza e di potenza, lungo un
processo che ha trovato il suo epilogo oggettivo nel feroce nazismo del Terzo Reich.
L’albero
cattivo lo si riconosce dai suoi frutti. Si evidenzia qui quanto le idee non
sono cose astratte che lasciano il tempo che trovano o buone solo per inutili
discussioni. Possono essere un semplice fuoco d’artificio che dura pochi
secondi, come una deflagrazione che coinvolge intere popolazioni. Quando l’uomo
pone se stesso come soggetto creatore
della realtà, come unica realtà esistente e vuole decidere lui cosa è bene
e cosa è male, si mette al posto di Dio: si riproduce così il peccato originale
e tutto ciò che consegue.
Fichte e l’anarchismo
L’anarchismo è innanzitutto l'affermazione
delle potenzialità individuali contro la
società borghese, contro lo Stato, contro tutte le forme di alienazione collettiva
ed è un altro frutto dell’idealismo. Tutto comincia con Fichte ed i romantici
tedeschi, con l'affermazione di un soggetto autonomo e assolutamente libero di
auto-crearsi: “Con l'essere libero, cosciente di sé, appare allo stesso
tempo tutto un mondo, a partire dal nulla”.
Il "Più antico programma
dell'idealismo tedesco" (Fichte, Scelling, Hölderlin, Hegel), demolisce la
legittimità dello Stato: “Soltanto ciò che è oggetto della libertà si
chiama Idea. Dobbiamo dunque superare anche lo Stato! Perché ogni Stato è
obbligato a trattare gli uomini come un ingranaggio meccanico; ed è quanto non
deve accadere, bisogna dunque che si fermi”.
Fondato sull'idea di libertà, questo
"Programma" è senza dubbio il primo manifesto anarchico, ben lungi
dal culto dello Stato al quale si associa abitualmente il romanticismo tedesco
e la cultura germanica. Nel suo fondo, il primo romanticismo è tendenzialmente
anarchico ed annuncia il dadaismo. Il
Dadaismo, o Dada, è una tendenza culturale nata a Zurigo, e sviluppatosi tra il 1916 e il 1920: ha
interessato soprattutto le arti visive, il rifiuto degli standard artistici fino alle
ideologie politiche; ha inoltre proposto il rifiuto della ragione e della logica, ha enfatizzato la stravaganza e il disgusto nei confronti
delle usanze del passato. Dal primo romanticismo, che critica
lo Stato-macchina e la società meccanizzata, all'anarchismo, non c'è dunque che
un passo.
Friedrich Schelling (1755-1854)
Vita e opere
Condiscepolo di Hegel a
Tubinga, fonda insieme a lui il Giornale
critico di filosofia, ma poi ruppe con l’amico quando questi pubblicò la Fenomenologia, in cui mostrava di voler percorrere
altre vie. Fu professore a Jena, dove intorno a lui si formò il primo nucleo
della scuola romantica (fratelli Schlegel); poi a Monaco e infine a Berlino. Opere:
Idee sulla filosofia della natura;
Sistema dell’idealismo trascendentale; Esposizione del mio sistema.
Idealismo oggettivo
Schelling
si rende conto che Fichte ricade nel dualismo di Kant e quindi ci dice che se
noi continuiamo a chiamare la realtà con i caratteri della soggettività, cioè
l’io, non potremmo mai fare a meno di un oggetto contrapposto al soggetto per
natura. Schelling quindi suggerisce di introdurre il concetto di assoluto, che
è pensiero e che è quindi spirito, come unica realtà che ha in sé il soggetto e
l’oggetto. Assoluto di Schelling come INDIFFERENZA DI SOGGETTO E OGGETTO.
Assoluto che quindi può essere l’una come l’altra cosa.
a)
La filosofia di
Schelling viene definita idealismo
oggettivo (o filosofia della identità) poiché, reagendo all’idealismo
soggettivo di Fichte che relega la natura al ruolo di semplice non-Io, restituisce ad essa la sua
realtà e la sua dignità mettendola sullo stesso piano dell’Io.
b)
Secondo Schelling
infatti occorre porre come originario un principio da cui derivano sia la
natura che lo spirito, il soggetto e l’oggetto. Schelling identifica tale
principio nell’Assoluto. L’Assoluto di Schelling assomiglia perciò alla Sostanza di Spinoza che pur essendo
unica, si differenzia negli attributi dell’estensione e del pensiero. Ma mentre
la Sostanza di Spinoza era concepita come qualcosa di statico, ovvero come
l’ordine oggettivo che costituisce la realtà, l’Assoluto di Schelling è
dinamico e perciò assomiglia anche all’Io
di Fichte che intendeva
quest’ultimo come un’incessante attività di superamento del non-Io.
c)
Diversamente da
Fichte, Schelling sostiene però che la natura
(il non-Io) possiede un suo valore autonomo, e differisce dallo spirito solo
perché è inconscia e che tende verso
la coscienza come la meta di un lungo processo che si compie soltanto
nell’uomo. La natura è infatti una realtà dinamica e intimamente spirituale,
una gradualità di processi entro i quali una coscienza addormentata si viene
progressivamente svegliando. Si ha così una negazione della realtà della
materia che viene ricondotta allo spirito sotto forma di forze di attrazione e
repulsione.
d)
L’idea di fondo
della filosofia di Schelling è che esiste uno stesso slancio vitale che percorre e unisce natura e spirito,
mondo e io, realtà materiale e realtà ideale. Essi formano una totalità, un
organismo universale. Il sistema della natura e il sistema dello spirito non
mettono dunque in luce che i due aspetti di uno stesso essere che può essere
ritrovato percorrendo due vie diverse:
partendo dalla natura per risalire allo spirito oppure partendo dallo spirito
per risalire alla natura.
L’analisi filosofica di Schelling si articola perciò in due
momenti:
1) Prima via: la filosofia
della natura, che parte dall’oggettivo per derivarne il soggettivo. Essa
descrive lo sviluppo della natura dalle sue forme più semplici (regno minerale,
vegetale, animale, ecc.) fino all’emergere dello Spirito, con l’uomo.
2) Seconda via: la filosofia
trascendentale, che parte dal soggettivo per derivarne l’oggettivo. Essa
descrive come la spiritualità inconscia divenga Spirito consapevole nell’uomo e
plasmi la realtà e la Storia.
Riassumendo, possiamo dire che
Schelling traccia una vera e propria storia filosofica dell’Io, individuando
tre momenti:
1.
Prima epoca: sensazione (l’oggetto è avvertito come
estraneo, come un dato che limita l’io)
2.
Seconda epoca: intuizione (l’io comincia ad avvertire
se stesso, ma si sente ancora immerso negli oggetti)
3.
Terza epoca: riflessione e volontà (l’Io si sente padrone degli oggetti e diventa consapevole
di poterli gestire con la propria volontà). Entriamo qui nel mondo umano e nel
campo della Storia, dove l’Io diventa padrone di sé e si autodetermina.
Hegel
dirà di Schelling che il suo assoluto ”è
come la notte nella quale tutte le vacche sono nere”.
Commento di don Claudio Crescimanno
Dobbiamo riconoscere
che la filosofia tedesca ha dominato l’Europa da Kant fino ai nostri giorni. Ha
dominato raggiungendo tutti gli ambiti del sapere teoretico e senza incontrare
rivali o critiche significative. Nelle discipline pratiche come l’economia
hanno avuto maggior influenza i pensatori anglosassoni, ma non vi è dubbio che
nelle discipline teoretiche la Germania l’ha fatta da padrona. Tedeschi sono
stati i filoni della destra Hegeliana e tedeschi sono stati i filoni della
sinistra Hegeliana, che si sono combattuti, ma sempre e solo fra di loro. Tutti
gli altri ne hanno solo subito le conseguenze. Anche in ambito religioso e non
solo politico, tutte le esegesi, cioè la spiegazione delle sacre scritture da
un punto di vista critico scientifico, si ispira agli autori tedeschi. Anche in
ambito cattolico si sono mutuati i principi e le somme che essi hanno tirato,
con un senso di infantile soggezione che dà pienamente ragione a quelle idee che sembravano solo delle sparate
nazionalistiche di un fanatico fuori dalle righe.
Il risultato pratico
che ne deriva è che se noi abbiamo seguito con attenzione e abbiamo preso sul
serio questi discorsi e ci sentiamo ora tutti degli imbecilli. Imbecilli che vivono una vita inconsapevole, che credono
che le cose intorno a noi esistano davvero e che la sedia sulla quale siamo casualmente
seduti non esiste, ma stupidamente non ce ne accorgiamo, per questo non
cadiamo. Siamo degli imbecilli, dove imbecillità è la condizione di chi è sciocco, credulone e poco intelligente (dal
dizionario italiano), di colui che si fida di ciò che
gli sembra e non capisce come invece stanno davvero le cose, che invece persone
molto più intelligenti hanno capito.
L’idealismo, le cui
prime tracce sono già nell’illuminismo e nel razionalismo, è la massima
contraddizione rispetto al senso comune. È una contraddizione che tenta di far
calare la notte su quanto capito e appurato in 2.500 anni di ricerca
appassionata della verità. La conseguenza devastante è che tutto questo, non è
rimasto nei salotti bene a riempire il tempo di sfaccendati intellettuali, ma è
pesantemente entrato nei comportamenti anche della gente comune prendendo inesorabilmente
il posto della religione e della morale. Si diffonde un’etica, cioè una regola
di comportamento, che non ha altro riferimento che noi stessi. Cioè il fine dei
nostri comportamenti non è più il nostro e altrui bene, ma quello che io decido
cosa è bene per me e cosa è bene per gli altri, nessun riferimento esterno è
ammesso. Dio sono Io.
Viene volutamente
“rottamato” il concetto di Aristotele che “il bene si chiama bene perché mi fa bene” e “il male si chiama
male perchè mi fa male” (a me e agli altri). L’antica saggezza medievale diceva: bonum quia
bonum aut bonum quia iussum? [bene perché è bene o bene perché è comandato?]. Cioè: il bene è
tale perché è bene (bene in sé) o è bene perché è comandato da una legge? In
altre parole il bene uno lo deve praticare perché è bene o perché altrimenti
subisce una sanzione o un castigo? Una cosa è comandata (e anche raccomandata)
perché è buona. Le regole per una corretta e giusta convivenza sono stabilite
per il bene dei conviventi, non sono dogmi o imposizioni per sottomettere la
gente. Così pure e da sempre, i 10 comandamenti. Essi mettono sostanzialmente
in guardia dal fare cose che non sono il bene per l’uomo. Il bene precede la legge. La legge scopre o
individua o riconosce il bene e lo propone e lo comanda e raccomanda per tutti.
Questo vale sia per
la vita spirituale dell’uomo che per il suo organismo fisico. Per esempio il
nostro stomaco è fatto in modo che sono per lui un bene certi alimenti e male
cert’altri; sono piacevoli, ma nocivi alcuni ingredienti e amari e
indispensabili altri. Così i nostri comportamenti sono buoni o cattivi in
dipendenza da come è fatto l’uomo, non da come decidiamo autonomamente noi o da
come ci piace fare. Quindi l’arsenico è nocivo, non perché è proibito, ma
perché ci fa male, il furto è una cosa cattiva, non perché è proibito e punito,
ma perché è un male per se e per la comunità. Ci sono poi altre cose o
comportamenti che mi fanno bene, che mi fanno crescere e che mi perfezionano (ad
es. lo studio anche se mi costa sacrifici) e ci sono altre cose e altri
comportamenti che deprimono e danneggiano la mia natura (cioè per come sono
fatto) e che quindi mi rendono meno uomo (ad es. piaceri smodati che annullano
la capacità di autocontrollo).
Dopo Kant tutto
questo, nonostante i benefici di più di 2.000 anni, viene, non solo
abbandonato, ma addirittura osteggiato. L’uomo vuole decidere lui chi è e come
è fatto e quindi decidere lui cosa è bene e cosa è male per lui (anche qui è
calzante il comportamento di Pinocchio, che non sa ancora bene chi è e in che
mondo vive ma subito vuol fare quel che gli pare). Non gli interessa più la
ricerca della verità, gli basta quella che decide lui. L’uomo è diventato il
creatore del bene e del male, lui decide chi è e decide cos’ è giusto e cos’ è
sbagliato per la sua vita, pur avendo idee poco chiare di chi è lui veramente
(le avrebbe ma non le vuole ascoltare). È l’apoteosi del relativismo etico o
come dirà poi Benedetto XVI la
“dittatura del relativismo”. In ultima analisi, tutto questo processo è l’ atto
suicida dell’uomo moderno.
Idealismo - Enciclopedia dei ragazzi (2005), di Stefano
De Luca
Per idealismo, nel
linguaggio corrente, si intende un modo di pensare e di agire basato sulle
convinzioni ideali e non sulle convenienze pratiche. In questo senso, idealista
è colui il quale rimane fedele alle proprie idee, anche se ciò gli procura ‒
nella realtà ‒ svantaggi o insuccessi. Anche nel linguaggio filosofico il
termine idealismo è legato al ruolo cruciale delle idee. Esso è stato usato in due
diversi significati: per indicare quelle filosofie che ritengono dubbia o
inesistente la realtà esterna (idealismo gnoseologico); oppure per indicare
un'importante corrente della filosofia ottocentesca (idealismo tedesco), che
interpreta la realtà come manifestazione di un principio infinito di carattere
ideale.
Una teoria della conoscenza.
L'uso filosofico del
termine idealismo si affermò, nel corso del Settecento, per indicare quelle
filosofie che ‒ partendo da una certa concezione della conoscenza ‒ erano
giunte a ritenere dubbia o inesistente la realtà esterna.
Da Cartesio in avanti si era infatti affermata la tesi secondo cui gli
uomini conoscono soltanto le idee, ossia le rappresentazioni mentali delle
cose. Quando osserviamo un albero, nella nostra mente si forma la
rappresentazione dell'albero, ossia la sua idea: ed è con questa che abbiamo a
che fare, non con l'albero in sé stesso, che è irrimediabilmente fuori di noi.
Ma se ciò è vero, la realtà del mondo esterno diventa dubbia: se la nostra
conoscenza è fatta solo di rappresentazioni mentali, chi ci garantisce che a esse
corrisponda, fuori di noi, qualcosa di reale? Più in generale, chi ci
garantisce che la realtà esterna esista? Cartesio
dichiarò che l'esistenza delle cose esterne era dubbia, ma risolse tale
problema dimostrando l'esistenza di Dio, che faceva da garante della verità delle nostre rappresentazioni (Dio non può aver
creato esseri che si autoingannano).
Il filosofo irlandese George Berkeley (17 -18 secolo), partendo sempre dal principio che
conosciamo soltanto le nostre idee, si spinse a negare la realtà del mondo
esterno. Per lui esse est percipi, ossia "essere significa essere
percepiti": una cosa esiste soltanto se c'è un soggetto che la percepisce,
cioè che la pensa. In altre parole, la realtà esiste soltanto nel soggetto e
quindi nelle idee: noi non conosciamo gli oggetti in sé stessi, come qualcosa
di distinto dal soggetto; affermare quindi la loro esistenza è una pura
assurdità.
Quanto a Kant, egli rifiutò le tesi
di Cartesio e Berkeley (che definì idealismo materiale, in quanto riguarda l'esistenza del
mondo esterno) ed elaborò una dottrina detta idealismo trascendentale, secondo cui i dati
provenienti dalla realtà esterna ‒ la cui esistenza è indubbia ‒ sono conoscibili solo attraverso le categorie
mentali del soggetto.
L’idealismo tedesco
Il punto di partenza
dell'idealismo tedesco è rappresentato dall'eredità kantiana e, in particolare,
dal problema della cosa in sé. Kant aveva affermato che noi conosciamo le cose come ci appaiono (fenomeni) e non le cose come sono
(noumeni), cioè le cose in sé. Il nostro apparato
percettivo e le nostre categorie intellettuali sono come occhiali di cui non possiamo
liberarci: ed è soltanto per il loro tramite che possiamo conoscere la realtà
esterna. È proprio il soggetto, con le sue categorie, a conferire universalità
e necessità ai fenomeni. Quanto alle cose in sé stesse, esse rimangono
irraggiungibili, cioè incomprensibili, dal momento che il soggetto non può
uscire da sé stesso. Ma questo non significa che la realtà esterna sia dubbia o
inesistente: per Kant la realtà esterna, anche se incomprensibile, comunque
esiste ed è l'inizio di ogni processo conoscitivo.
Tale conclusione fu
criticata da alcuni seguaci di Kant, i quali misero in luce come il maestro
sarebbe rimasto a metà strada tra idealismo e realismo. Per un verso, Kant
aveva compreso che tutto dipende dall'io, ossia dalla soggettività (idealismo);
per un altro verso, però, era rimasto prigioniero della posizione opposta,
quella secondo cui la realtà esiste indipendentemente dal soggetto (realismo). I
filosofi idealisti abolirono decisamente la cosa in sé che dava ordine alla realtà per il
tramite delle sue 12 categorie di Kant e introdussero un'entità infinita che
crea tutta la realtà. Dal piano gnoseologico (cioè ponendoci la domanda
"come conosciamo?") ci si è ora spostati al piano ontologico (per
rispondere alla domanda "cosa è la realtà?"). I filosofi idealisti,
del resto, volevano elaborare una dottrina della realtà, non una teoria di come
giungiamo a conoscerla.
Anche se l'idealismo
tedesco si sviluppa dalla discussione di un problema lasciato aperto da Kant,
esso in realtà riflette una disposizione intellettuale e morale completamente
diversa. Il pensiero di Kant rappresentava il culmine della filosofia moderna,
che aveva fatto del problema della conoscenza il problema filosofico per
eccellenza, giungendo a fissare precisi limiti alle capacità della ragione
umana (l’isoletta del conoscibile umano, nell’oceano dell’inconoscibile). I
filosofi idealisti sono invece dominati dall'insofferenza verso tali limiti e
dall'aspirazione a ricostruire un sistema filosofico onnicomprensivo, che
superi il dualismo tipicamente moderno tra finito e infinito, tra mondo e Dio,
raggiungendo l'Assoluto. Nonostante la complessità delle tematiche e l'uso di
un linguaggio molto difficile, la filosofia idealistica ebbe ampia risonanza,
perché essa nasceva in realtà dalla coscienza acuta e drammatica dei problemi
storici, politici e morali del suo tempo.
Non a caso,
l'iniziatore di questa scuola ‒ Johann
Gottlieb Fichte (18 -19 secolo) ‒ presenta il suo pensiero come il
corrispettivo filosofico della Rivoluzione francese: come quest'ultima ha
liberato "l'uomo dalle catene esterne", così la sua filosofia "lo libera dei ceppi delle cose in sé,
dell'influenza esterna" e lo consacra come essere libero e indipendente.
Il realismo, nella prospettiva di Fichte, non è solo una dottrina della
conoscenza, ma un modo di essere: sostenere che il mondo esterno esiste in modo
indipendente dal soggetto significa rinunciare alla nostra missione di esseri
liberi, chiamati a trasformare il mondo e non a rassegnarsi fatalisticamente a
esso. "Un carattere fiacco di natura
o infiacchito e piegato dalle frivolezze, dal lusso raffinato o dalla servitù
spirituale ‒ scrive Fichte ‒ non potrà mai
elevarsi all'idealismo".
Le diverse concezioni dell'Assoluto
Per i filosofi
idealisti tutta la realtà è espressione di un principio infinito, avente
carattere ideale, che viene denominato in vario modo: Io, Idea, Spirito,
Ragione e così via. L'uso della lettera maiuscola indica come non si tratti
dell'io, delle idee o della ragione individuali, ma di entità sovra-individuali,
che coincidono con la totalità o Assoluto. Questo Assoluto, però, non è
un'entità trascendente ‒ come il Dio cristiano, che sta al di là del mondo e presenta caratteri opposti a esso (infinito contro
finito) ‒ bensì un'entità, che coincide col
mondo stesso, immanente (cioè senza un 'al di là',
senza il 'trascendente' e che identifica
Dio con il mondo). Inoltre, l'Assoluto non è qualcosa di immobile, sottratto
all'azione del tempo, ma un processo dinamico la cui molla sta nell'urto tra
gli opposti.
Siamo giunti così al
tema cruciale della dialettica, di cui gli idealisti
danno interpretazioni diverse, dalle quali discendono differenti concezioni
dell'Assoluto. Per Fichte l'Io genera continuamente un non-Io (il mondo), perché soltanto la presenza di un ostacolo
permette all'uomo di realizzarsi in quanto uomo, ossia in quanto essere che ‒
lottando contro le inclinazioni naturali ‒ afferma la sua libertà. Per Fichte, però, l'Infinito rimane soltanto un dover-essere,
un orizzonte verso il quale l'io finito tende in uno sforzo continuo di
approssimazione.
Per il secondo grande
protagonista dell'idealismo ‒ Friedrich
Wilhelm Joseph Schelling (18 -19 secolo) ‒ il mondo o natura non può essere considerato un semplice ostacolo, una sorta di scena
approntata soltanto perché l'Io si realizzi: in questo esasperato
soggettivismo, l'idealismo fichtiano rivela di essere l'ultimo erede della
"misera età cartesiana", caratterizzata dalla scissione tra spirito e
natura. La filosofia, secondo Schelling, deve invece mostrare come spirito e
natura siano originariamente uniti: l'Assoluto è precisamente questa unità
indifferenziata degli opposti (dalla quale tutto deriva e alla quale tutto
tende), unità che può essere colta soltanto da un'intuizione intellettuale,
come quella cha ha luogo nell'opera d'arte.
L'Assoluto di
Schelling sarà definito da Hegel: "una notte in cui
tutte le vacche sono nere" (nella quale cioè è impossibile capire il colore delle cose e
il loro vero significato). Per Hegel l'Assoluto non è un'unità indifferenziata (e quindi incomprensibile), bensì
l'incessante trama dialettica della realtà, il continuo processo di
differenziazione tramite le contraddizioni, che ha nella storia il suo
grandioso teatro.
Lo Stato
pedagogico (approfondimento)
Il nuovo Stato democratico-totalitario uscito dalla rivoluzione è, come
vuole Rousseu, uno Stato pedagogico, uno Stato educatore, che ha il compito di
inculcare nei giovani, anziché i principi del Vangelo, i principi della nuova
religione umanitaria dei diritti dell’uomo e della libertà (?). Ed è ciò che in
varia misura è a tutt’oggi applicato nelle scuole pubbliche statali.
Le scuole però sono nate “cattoliche” come abbiamo visto nel medioevo
(le scuole monastiche, le scuole cattedrali e le università patrocinate dai
Papi). Ma ancor prima, le comunità cristiane (minoranza esigua) immersi
nell’oceano pagano della Roma imperiale, corrotta e lasciva, si organizzarono
con maestri battezzati che aprono scuole private grazie alla libertà di
insegnamento vigente a Roma, anche se fra i martiri troviamo insegnanti e
precettori (come san Cassiano, san Flaviano, ecc.). la Chiesa ha sempre
sostenuto la responsabilità educativa dei genitori e la formazione spirituale e
culturale dei giovani anche per sostenerli dalle influenze morali negative
dell’ambiente pagano e per prepararli a testimoniare la propria fede e ad
essere in grado di fare dell’apostolato, come oggi con il Catechismo (?).
Con la caduta dell’Impero romano
d’Occidente, si ha il collasso di tutte le istituzioni pubbliche e il
problema dell’educazione dei fanciulli ricade interamente sulle spalle della
Chiesa e dei suoi preti e frati. Questa situazione dura per tutto il medioevo,
come abbiamo già visto, ma poi subisce due gravi ferite: la cultura
rinascimentale e la rivoluzione luterana.
La cultura rinascimentale semina
danni anche in ambito pedagogico con quella che verrà poi chiamata secolarizzazione
o laicizzazione delle istituzioni scolastiche con le quali lo Stato cerca di
riprendere il controllo dell’educazione dei giovani.
Erasmo da Rotterdam, teologo, umanista e filosofo olandese, considerato il maggiore
esponente del movimento dell'Umanesimo cristiano e Comenius teologo ed educatore ceco, considerato il padre dell'educazione
moderna,
sono i principali protagonisti e sostenitori (nonché colpevoli) di questo
cambiamento.
La rivoluzione luterana, che oltre a distruggere il
fittissimo tessuto delle scuole
cattoliche nei paesi protestanti, fa rapidamente passare il principio che ogni
tipo di insegnamento, religioso o culturale debba essere soggetto al Principe e
allo Stato. Vengono poste così le fondamenta di quella gestione totalitaria
dell’istruzione pubblica che si imporrà in tutta l’Europa a partire dalla
famigerata rivoluzione francese e, in particolare, nel novecento. Viene meno
così l’armonioso sistema corporativo e sussidiario proprio dell’età medioevale
nel quale lo Stato interveniva solo per sostenere e aiutare le iniziative delle
famiglie, delle corporazioni e della Chiesa.
All’attacco luterano la Chiesa risponde con il Concilio di Trento, che in teoria avrebbe dovuto
"conciliare" cattolici e protestanti, e che durò ben 19 anni, dal
1545 al 1563, che promosse l’istruzione popolare ad ogni livello. Nacquero così
Ordini religiosi, come i Barnabiti, gli Scolopi, i Padri Somaschi, i Gesuiti
che ricoprirono il continente europeo e il nuovo mondo di una fitta ragnatela
di collegi e scuole di eccellente qualità (grazie alla forte motivazione e alla
fede degli insegnanti) frequentate spesso anche dai figli di protestanti e di
atei (come ancora oggi). Questo processo espansivo continuò poi nel ‘600 e nel
‘700 con l’aggiunta di altri ordini (i
Fratelli delle Scuole Cristiane, le Orsoline di Angela Merici, le Visitandine
di san Francesco di Sales, ecc.) e poi nell’800 con gli
Oratori dei Salesiani di don Bosco e le loro le Scuole professionali e di arti
e mestieri, ecc. Le così dette, e oggi contestate, Scuole Cattoliche.
La Scuola di Stato
Nella seconda metà del ‘700, si scatena un feroce assalto alle
scuole cattoliche: lo Stato rivendica il primato e il ruolo esclusivo
nell’organizzazione dell’istruzione e nega il diritto per la Chiesa a gestire
propri istituti scolastici. L’illuminismo con Rousseu e i suoi compagni massoni
riescono così a sottrarre i giovani all’influenza dei “preti” e dell’odiata
Chiesa cattolica. L’opera educativa cattolica incontrerà serie difficoltà a
continuare la sua missione, ieri come oggi, sia nel campo educativo che in
quello sanitario e caritativo che subirà la stessa sorte.
Le Scuole Paritarie
Per scuola privata o paritaria si intende una scuola non amministrata dallo Stato. Queste Scuole
hanno ampia libertà circa materie e insegnanti. Le scuole paritarie possono
rilasciare titoli equivalenti ai diplomi rilasciati dalla scuola statale purché
si sottopongano ai programmi del ministero dell'istruzione. I fondi necessari per
l'ordinaria gestione della scuola si ricavano dalle rette pagate dai genitori degli
studenti, dalle borse di studio di benefattori e da contributi statali, non
sempre riconosciuti e sistematicamente contestati e ridiscussi dalle fazioni
avverse al ruolo fondamentale della famiglia nell’educazione dei figli.
I genitori cattolici o
comunque quei genitori che sentono fortemente la loro responsabilità di
educatori dei propri figli e che non vogliono che essi siano manipolati dalle
ideologie invasive dei gruppi di potere che governano il paese (apparentemente
democratici, ma totalitari di fatto e sfacciatamente massoni) e che
sostanzialmente sostengono una galoppante secolarizzazione di tutte le
istituzioni, questi genitori dicevamo, lottano da tempo per una “libertà educativa”. Questa lotta ha
permesso, in mezzo a mille difficoltà, di concretizzarsi con la realizzazione
di Scuole Paritarie, cioè scuole
private riconosciute alla pari di quelle statali ma con insegnanti che
garantiscono il loro ruolo di co-educatori con i genitori e rispettosi dei
“valori non negoziabili” (come li ha definiti Benedetto XVI) che il
cattolicesimo propone. L’opinione pubblica ha reagito contestando sistematicamente
queste Scuole paritarie da loro definite “le scuole dei ricchi” che sottraggono
finanziamenti alla Scuola Pubblica e causa dell’inarrestabile degrado della
Scuola stessa. Va però sottolineato che il degrado che si nota nella Scuola,
come in altri Servizi Sociali gestiti dallo Stato (Ospedali, Ospizi, Case
popolari, ecc.) è dovuto alla perdita di una forte motivazione a perseguire il
bene comune di molti operatori sociali
che gestiscono la cosa pubblica per “mestiere” e non per “vocazione” come
quando queste istituzioni sono nate. Per fortuna esistono molti casi, spesso
poco noti, di vera e propria abnegazione di insegnanti e operatori sociali ai
vari livelli e di Associazioni che aprono grandi spazi di speranza per un mondo migliore.
Le Scuole Parentali
Le difficoltà
economiche delle Scuole cattoliche che tentano sempre di accogliere anche i
figli delle famiglie numerose e meno abbienti con iniziative private di
raccolta fondi e con contributi statali che non compensano gli obblighi imposti
dal Ministero della Pubblica istruzione, hanno suggerito la nascita delle Scuole Parentali. Scuole cioè “fuori
contratto”, di proprietà dei genitori, che rinunciano ai pochi contributi
statali e ad un riconoscimento ufficiale, per essere libere di scegliersi i
propri docenti (come le scuole paritarie) ma di essere anche loro stessi
docenti, di scegliersi i libri di testo più adatti e di operare in piena
autonomia senza ricatti da parte dello Stato. Stanno nascendo quindi cooperative
di genitori per gestire sia le scuole cattoliche paritarie che quelle libere,
le parentali.
Le scuole libere
(internamente libere) sono le strutture più adeguate per una autentica
educazione, in armonia con i bisogni dei ragazzi. In effetti esse permettono
una varietà pedagogica ed educativa che le scuole dirette dallo Stato non sanno
più offrire. Le scuole parentali, sono realizzate da genitori che non vogliono
delegare minimamente la propria responsabilità educativa e che chiedono per i
figli una didattica in grado di formare uomini, sapendo che non c’è uomo più
sinceramente e profondamente umano del cristiano. L’assillo dei problemi di
tipo economico c’è come c’è in tutte le opere sociali e caritative della Chiesa
Cattolica che si poggia sulle preghiere, sulla Provvidenza divina e sulla generosità
dei cristiani. Sono sacrifici che vale la pena di affrontare.
(Liberamente tratto
dal “Dossier sull’Educazione” del n.
102 del marzo 2015 della rivista “Radici Cristiane” http://www.radicicristiane.it , vedi anche http://www.scuolahobbit.it e http://educazioneparentale.org )
Legislazione sulla istruzione parentale
I genitori o gli esercenti la potestà parentale che intendano provvedere
in proprio all’istruzione dei minori soggetti all’obbligo di istruzione nel
primo ciclo, secondo quanto previsto dall’articolo 111 del decreto legislativo
n. 297/94, devono rilasciare al dirigente scolastico della scuola del
territorio di residenza apposita dichiarazione, da rinnovare anno per anno, di
possedere capacità tecnica o economica per provvedervi, rimettendo al dirigente
medesimo l’onere di accertarne la fondatezza.
La Rivoluzione moderna
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