Empirismo e
Razionalismo
Empirismo e Razionalismo sono due grandi dottrine filosofiche
che nell’età moderna hanno cercato una risposta agli interrogativi fondamentali
della conoscenza umana: l’uomo, come
conosce la realtà? Come arriviamo a conoscere le cose? In che modo possiamo
stabilire se ciò che vediamo corrisponde alla verità?
L’Empirismo, (dal greco εμπειρια - esperienza) assegna un ruolo centrale all’esperienza sensibile. Solo attraverso
i nostri sensi è possibile acquisire informazioni sulla realtà che ci
circonda e procedere all’elaborazione dei concetti su cui costruire l’edificio
del pensiero filosofico e scientifico. Questo porta ad affermare che non
esistono idee innate, cioè non c’è nulla nell’intelletto che non provenga dai
sensi.
Il Razionalismo, al contrario, ammette l’esistenza nell’intelletto umano di
determinate idee universali e
principi conoscitivi, prima e al di là
di ogni esperienza dei sensi. Grazie a questa dotazione innata, l’uomo può
giungere attraverso elaborazioni della
sola mente alla formulazione di un sapere vero. Nel ‘600 il principale
rappresentante di questo orientamento filosofico è Cartesio che nel “Discorso sul metodo” invita a diffidare dei sensi
che non possono fornire certezze alla mente, mentre la ragione umana è in grado
di dedurre da sola la struttura razionale del mondo.
Dalla seconda metà del seicento ad oggi entrambe le dottrine
hanno trovato nuove e diverse formulazioni, restando però due poli fondamentali
per orientare la riflessione filosofica sulla conoscenza umana.
Qual è il problema di fondo della filosofia moderna? È il
problema della conoscenza, cioè il
problema gnoseologico: la ricerca della corrispondenza fra le nostre
rappresentazioni mentali del mondo e il mondo come è nella sua realtà. Il problema gnoseologico occupa un percorso lungo 2500 anni,
che va dai filosofi presocratici ai giorni nostri. Parte dallo stupore degli uomini
che per la prima volta hanno lasciato nella storia una traccia della loro
capacità di riflettere sulla realtà, e su un mondo che appariva loro “magico” e
arriva fino ai giorni nostri, quelli della rivoluzione introdotta dal pensiero
scientifico, e che al problema gnoseologico ha dato connotati nuovi.
Il filosofo contemporaneo Emanuele Severino vede la filosofia
moderna come fatta di isole che rappresentano autori e pensatori che vivono
autonomamente e apparentemente svincolati fra loro ma che comunque
“galleggiano” su di un sottofondo comune che è il tema della conoscenza, la
capacità del nostro pensiero di cogliere la realtà.
Alcuni elementi che caratterizzano la
filosofia di questo periodo:
1.
l’indubitabilità del pensiero. Il pensiero esiste: “Io ci sono e il mio
pensiero esiste”.
2.
l’indubitabilità del mondo. Il mondo esterno esiste. “io ci sono e il mondo esterno c’è”.
3. esistono solo le cose dimostrabili, per evitare che la nostra rappresentazione
mentale non coincida con la realtà. Non si da per scontato che le cose
esistono.
4. viene contestata la filosofia realista. Cioè la certezza che il mondo esterno
esiste ed è avvalorato dal senso comune. Osserviamo le cose e di fatto diciamo
che ci sono. È il principio della filosofia realista, della filosofia antica,
di quella medioevale ed anche della scienza moderna. L’oggetto si imprime nel
soggetto. Il soggetto di fronte alla realtà è passivo. Non possiamo non sentire
un suono, possiamo non ascoltarlo o pensare ad altro mentre lo sentiamo, ma non
possiamo (se siamo sani) non sentirlo. La realtà e il mondo ci si impone
La nostra percezione sensibile ha per alcuni un carattere RIVELATIVO,
mentre per altri un carattere OCCULTANTE.
Carattere Rivelativo
dei sensi
Carattere Occultante dei sensi
Che cos’è per il razionalismo il sapere? Il sapere è dato
dalla ragione. Questo perché la ragione può superare il velo che sta fra le
sensazioni e la realtà. Questo le permette di non doversi basare
sull’esperienza.
Il Razionalismo filosofico
Per il Razionalismo
filosofico: La costruzione del sapere deve avvenire sulla base di principi conosciuti
“a priori” o “innati”, cioè non attinti dall’esperienza. (è la via di Cartesio).
C’è un principio in noi che è innato che è indipendente dal
mondo sensibile e attraverso il quale noi scopriamo che cos’è la realtà. Per
poterlo fare dobbiamo andare al di là del mondo sensibile, cioè superarlo.
Dobbiamo cioè costruire quella che è chiamata una parabola metafisica
razionalista che scavalchi l’esperienza sensibile e l’osservazione della realtà
con i nostri sensi ingannevoli. La ragione quindi non dipende dall’osservazione
delle cose, ne può, anzi ne deve, fare a meno. Siccome quindi la conoscenza
della realtà funziona indipendentemente dai sensi, questi non sono
fondamentali, anzi debbono essere esclusi dalla conoscenza. Dobbiamo qui ricordare la metafisica di Aristotele che nella
ricerca delle ragioni prime va al di là della fisica, ma nel senso di “al di
sopra” della fisica, fino ad arrivare a Dio, causa di tutte le cose. Con
Cartesio nasce una metafisica moderna che va al di là della fisica, ma in senso
orizzontale, come un ponte sufficiente a scavalcare il velo che esiste fra i
sensi e la realtà. Il razionalismo
quindi salta a piè pari l’osservazione perché non si fida dell’immagine mentale
che i nostri sensi ci danno della realtà.
L’Empirismo
L’Empirismo, invece, si
propone come una radicale critica alla metafisica razionalista. Non accetta
spiegazioni derivanti da principi innati, perché è più che convinto che tutta
la nostra vita si basa solo su esperienze empiriche. Le cose innate non
esistono. Esistono solo i sensi. Il nostro cervello, cioè il nostro sistema
razionale, funziona solo dopo aver ricevuto le informazioni dall’esterno
attraverso i nostri sensi. L’empirismo riconosce che il mondo sensibile ha dei
limiti, non rivela tutta la realtà, ma è comunque questo quello che abbiamo a
disposizione e non ce ne sono altri. La nostra conoscenza è questa e questo è
l’unico terreno entro il quale ci possiamo e dobbiamo muovere. Il fondamento
del sapere è dato dalla conoscenza sensibile e questa è data dall’esperienza.
La ragione può lavorare solo sui dati di senso.
Obiettivo della sua filosofia fu: stabilire genesi, natura e valore della conoscenza
umana e definire i limiti entro i quali l’intelletto umano può e deve
muoversi e quali sono i confini che non deve valicare, ossia quali sono gli
ambiti che gli restano strutturalmente preclusi.
Anche lui come Cartesio crede che la nostra conoscenza derivi dalle
idee. Qui non siamo però di fronte al concetto di idea classica, cioè forma
sostanziale che sta nell’iperuranio, qualcosa che esiste davvero anche se in
un’altra dimensione. Ma per idea si intende
“un pensiero”, un contenuto della mente. Il problema ora è di capire come
fa un’idea ad arrivare a noi.
Idee semplici e idee complesse
Locke afferma che non ci sono idee o principi innati. Nessun intelletto
umano è capace di forgiare e inventare idee
semplici (colore, forma, consistenza, ecc. in somma gli “accidenti” di
Aristotele) che derivano invece dalla nostra esperienza. Per idee semplici si
intendono dati che sono alla base della nostra conoscenza. Queste idee semplici
ci vengono solo dall’esterno. L’uomo può solo combinare queste idee e formare
delle idee complesse. L’esperienza risulta il limite della conoscenza umana.
La critica dell'innatismo
In contrasto con i cartesiani e i platonici
della scuola di Cambridge, Locke
nega che possano esistere idee
innate; cioè idee «impresse nella mente dell’uomo, che l’anima
riceve agli albori della sua esistenza e porta con sé nel mondo» come:
l'idea di Dio o dell'infinito, oppure i principi logici, come ad esempio quello
di non contraddizione o i
principi morali universali, ecc.
Tutto quello che ritroviamo nella nostra
mente deriva solo dalla nostra esperienza e
non esistono idee che non abbiano un'origine empirica di esse. «Ma, ed è la cosa peggiore, questa
argomentazione del consenso universale, che viene impiegata per provare
l'esistenza di principi innati, mi sembra una dimostrazione che non c'è nessun
principio al quale tutta l'umanità dia il proprio universale consenso. È
evidente che tutti i bambini e gli idioti non hanno la minima apprensione o il
minimo pensiero di quei principi. E la mancanza di ciò è sufficiente a
distruggere quel consenso universale che deve necessariamente accompagnare
tutte le verità innate.»
Anche per le norme morali o principi logici
presunti universali, per negare il loro preteso innatismo basti pensare che: « [...] fra i bambini, gli idioti, i
selvaggi, fra le persone rozze e illetterate, quale genere di massime si
potrebbe scoprire? Le loro nozioni sono poche e ristrette, derivano solo da
quegli oggetti che sono da loro meglio conosciuti e che impressionano i loro
sensi in modo più frequente e più vivido».
L'empirismo di Locke
La negazione delle idee innate non era una
novità nella storia della filosofia: Aristotele
contrapponendosi a Platone, e San Tommaso a San
Bonaventura avevano già negato
l'innatismo.
L'empirismo di Locke si differenzia dagli
altri poiché il suo si fonda sulla convinzione che non esista principio, nella
morale come nella scienza, che possa ritenersi assolutamente valido tale da
sfuggire ad ogni controllo successivo dell'esperienza.
Ad esempio anche
Galilei e Hobbes, si
rifacevano alla conoscenza verificata dalle conferme dell'esperienza ma poi
consideravano fuori da questa la struttura razionale matematico-quantitativa
della realtà, attribuendole un valore assoluto di verità. Affermava infatti
Galilei che l'intelletto umano, quando ragiona matematicamente, è uguale a
quello divino.
L’intelletto
è per Locke come una “tabula rasa” che però si alimenta delle informazioni che
mano a mano riceve dall’esperienza che fa attraverso i suoi sensi.
Nei libri successivi del Saggio
sull'intelletto umano, Locke imposta la sua parte costruttiva: la conoscenza,
che non passa, come dimostrato, per l'innatismo, ma deve per forza essere di
tipo empiristico: non c'è nulla nel nostro intelletto che pima non sia passato
per i sensi. Detto questo, occorre esaminare come si acquisisce la conoscenza
tramite l'esperienza. Locke accetta la definizione cartesiana di idea come oggetto della mente, anzi
se ne serve per confutare l'innatismo: gli oggetti della mente comunemente
detti "idee" secondo il pensatore inglese arrivano da due diverse
fonti , il senso esterno (o sensazione) e il senso interno (o riflessione). Nonostante Locke sia
a tutti gli effetti un empirista, non accetta che tutto derivi dalla
sensazione: certo la sensazione esiste e sono sensazioni tutti i dati che
riceviamo dall'esterno (suoni, odori, immagini, ...), tuttavia accanto alle
sensazioni vi sono le riflessioni, ossia le informazioni che ricevo non già
dall'esterno, ma dal mio mondo interiore.
Quindi l'esperienza ha per Locke una duplice
fonte , il mondo esterno che dà le
sensazioni e il mondo interno che dà
le riflessioni, ossia che riflette lo stato d'animo del soggetto. Questi due
tipi di idee, chiamate appunto idee di sensazione e idee di riflessione sono in
prima battuta quelle che Locke definisce "idee
semplici", contrapposte alle "idee
complesse". Si dicono idee
semplici quegli oggetti del
pensiero il cui contenuto elementare non è ulteriormente scomponibile, e si
dicono idee complesse quegli oggetti del pensiero composti
il cui contenuto risulta scomponibile: l'idea di libro, ad esempio, è un'idea
complessa, nel senso che è costituita da più idee congiunte: sarà l'unione
dell'idea di forma data dall'ambito tattile e da quello visivo mescolate
all'idea di colore (di più colori magari) e all'idea di peso .
Locke distingue poi, a ragion veduta, tra funzione
passiva del senso e funzione
attiva dell'intelletto: le idee semplici le riceviamo e basta, in modo del
tutto passivo, tramite il senso; le idee complesse, invece, non le riceviamo
passivamente tramite il senso: sono una riorganizzazione e aggregazione da
parte dell'intelletto attivo di idee semplici: ricevo l'idea di blu, di
parallelepipedo, di peso tramite il senso e con l'intelletto le riorganizzo
congiungendole per dar vita all'idea più complessa della cosa che ho davanti.
Per fare proprie le idee complesse occorre quindi la cooperazione tra senso che acquisisce le idee semplici e
intelletto che le rielabora e le
riorganizza.
Negazione della “sostanza”
Qui però notiamo che il concetto di
“Sostanza” viene meno, anzi si stacca proprio. Locke, anche se accetta l'idea
di causalità, egli rifiuta radicalmente quella di sostanza: la critica all'idea di sostanza è uno dei passi argomentativi più
celebri del pensiero di Locke, che fa così traballare il classico edificio
della metafisica : è tipica della filosofia inglese del 1600-1700 la critica ai
contenuti della metafisica, la sostanza e la causa. Aristotele, a suo tempo,
aveva definito come argomento principale della filosofia l'indagine
sull'essere, indagine che si riduceva all'investigazione sulla sostanza: che
cosa è la sostanza ?
In filosofia per sostanza,
dal latino substantia,
letteralmente traducibile con "ciò che sta sotto", si intende ciò che
è nascosto all'interno
della cosa sensibile come suo fondamento ontologico
(studio dell'essere in quanto tale). La sostanza è
quindi ciò che di un ente non muta mai, ciò che propriamente e primariamente è
inteso come elemento ineliminabile, costitutivo di ogni cosa per cui lo si
distingue da ciò che è accessorio, contingente,
e che Aristotele chiama accidente. Per sostanza, in altre parole, si intende
ciò che è causa sui,
ovvero ha la causa di sé in se stessa e non in altro.
Per Locke tutto
questo è pura immaginazione per “sostenere” (substantia) le idee semplici, ma
non esiste nella realtà, la sostanza è una invenzione pratica per spiegare l’inspiegabile.
Egli racconta di un indiano a cui era stato domandato su che cosa
poggiasse il mondo; l'indiano aveva risposto senza esitare che il mondo poggia
sul dorso di un elefante. Allora il suo interlocutore gli domandò su che cosa a
sua volta poggiasse l'elefante e, dopo che l'indiano ebbe risposto senza
tentennamenti che esso poggia sul guscio di una testuggine, gli venne
nuovamente posto il problema su chi, a sua volta, poggiasse la testuggine:
l'indiano rispose che essa poggiava su qualcosa che lui non conosceva.
Ora secondo Locke il nostro atteggiamento nei
confronti della sostanza è esattamente analogo a quello dell'indiano nei
confronti del mondo. La storia della filosofia e lo stesso senso comune hanno
sempre portato l'uomo a ragionare in questo modo: vi è la sostanza libro di cui
posso predicare vari attributi, quali il colore, la forma, il materiale, ecc.
In altre parole, si è sempre dato per scontato che esistesse qualcosa cui si
attribuiscono delle caratteristiche (colore, forma, sapore, materiale, ...) e
questo qualcosa è sempre stato chiamato sostanza, ma è un artificio. La
sostanza non esiste. La sostanza è più una nostra invenzione che una realtà
vera. Siccome non sappiamo cos’è quella cosa che sta sotto un’idea semplice,
noi di essa non abbiamo di fatto nessuna conoscenza. Per esempio l’uomo. L’uomo
è un’idea complessa fatta da un insieme di idee semplici. A noi l’uomo ci si
presenta nella sua immediatezza e lo diciamo “uomo”. Per poterlo indicare
dovremmo dire che esiste la sostanza uomo, ma questa sostanza non esiste, anzi
è impossibile. Alla domanda “che cos’è l’uomo” per Locke non c’è risposta.
Assertion of Liberty of Conscience
by the Independents of the Westminster Assembly of Divines, 1644. Durante la rivoluzione inglese i calvinisti puritani produssero la celeberrima Confessione di fede di Westminster, pilastro costituzionale
del presbiterianesimo nelle terre anglofone.
la fede religiosa
Locke, poi, inserisce un altro elemento: la fede
religiosa. Essa si riferisce a cose di cui non possiamo avere la certezza
perchè non sono intuite, né dimostrate, né sensazioni attuali: sono cose che ci
vengono raccontate, ma che non abbiamo visto. Ora Locke, che si ritiene un buon
cristiano, riprende la distinzione fatta a suo tempo da San Tommaso: vi sono delle cose nella
fede religiosa che sono dimostrabili con la ragione, altre che non lo sono ma
che tuttavia non si oppongono al raziocinio e altre ancora che gli si oppongono
nettamente. Locke in “La
ragionevolezza del Cristianesimo” spiega
come i messaggi di cui si fa latore il Cristianesimo sono ragionevoli, ossia
accettabili dalla ragione; sono messaggi che o sono accettabili dalla ragione o
che le stanno sopra, senza però opporsi: tra i messaggi cristiani non ve ne
sono mai alcuni che si oppongano alla ragione. Sostenendo queste tesi, il
pensatore inglese prende le distanze dal Cristianesimo più estremistico che si
stava andando ad affermare nell'Inghilterra di 1600. Certo, se la fede andasse
contro la ragione saremmo tenuti a rifiutarla, ma la fede dice cose
dimostrabili con la ragione (come l'esistenza di Dio e la sua unicità). Poi
nella fede vi sono anche delle cose che vanno al di là della ragione umana ,
che le stanno sopra (above reason), ma tuttavia questo stare sopra non è
mai un andare contro. Tuttavia, se la fede è accettabile proprio perchè non
opposta alla ragione, si tratta di capire perchè si debbano accettare delle
cose che, pur senza andare contro la ragione, le stanno sopra, non sono da essa
dimostrabili. Locke fornisce una risposta a questo interrogativo dicendo che
avere fede significa credere in cose indimostrabili con la ragione e allo
stesso tempo inderivabili dall'esperienza, ma tuttavia testimoniate dal più
sincero dei testimoni: Dio. I contenuti della religione cristiana derivano
dalla Rivelazione, la quale (spiega Locke) non è contradditoria ai dettami
della ragione (pur standole sopra) e ci è riferita da Dio, testimone sincero e
buono (Dio, che è perfetto, non può che essere buono: l'aveva già dimostrato Cartesio). Ecco quindi che anche la
fede rientra nella conoscenza probabile e non certa.
In conclusione del discorso gnoseologico, Locke
paragona la ragione umana a una candela: essa ci illumina, però non su tutta la
realtà, anzi su porzioni ristrette e non su tutte allo stesso modo. Tuttavia è
l'unico strumento di indagine di cui disponiamo ed è stato Dio stesso a fornirci
di questa candela conoscitiva: Egli ci ha fornito di quanto ci basta per
conoscere: la nostra ragione, pur
non essendo onnipotente, ci è sufficiente, tant'è che può dire la sua anche per
quel che riguarda la religione.
La vita
La famiglia di
John Locke rappresenta bene l’ambiente puritano, il mondo dei piccoli
proprietari, attaccati alla legge divina ed ai diritti nuovi degli
imprenditori, che avrà ragione della monarchia assoluta.
La giovinezza di Locke coinciderà, infatti, con la Rivoluzione
inglese (che comincia nel 1642 e terminerà nel 1649) con la deposizione e
l’esecuzione del re Carlo I, e con il Commonwealth, posto sotto l’autorità di
Cromwell fino alla morte di quest’ultimo, nel 1658. Il giovane Locke entra alla
Westminster School nel 1647 ed al Christ Church (Oxford) nel 1652.
La sua cultura letteraria si estende allora alle discipline
linguistiche, utili all’esegesi delle Sacre Scritture. Nel 1660 è lettore di
greco, nel 1664, incaricato di filosofia. Si inizia tuttavia alla medicina, in
particolare al seguito di Sydenham, ma soprattutto incontra Robert Boyle che
gli rivela il nuovo volto della scienza fisica, allora la disciplina
scientifica sottoposta alle più sconvolgenti innovazioni. Dal 1666 al 1683,
Locke è il consigliere di lord Ashley, e fa ingresso così in politica
nelle file di coloro che vogliono limitare il potere degli Stuarts, restaurati
sul trono dal 1660. Parteciperà anche alle attività dei “whigs” contro Carlo
II.
Le opere
Oliver Cromwell e la Rivoluzione Inglese (inserto)
La rivoluzione
inglese o guerra civile inglese si è svolta tra il 1642 e il 1660 ed ha
influito notevolmente sui pensatori dell’epoca, a partire da John Locke.
Il principio di tutto è da ricercarsi quando Giacomo I già re di Scozia, ottenne la corona di Inghilterra dopo la morte di Elisabetta (rimasta senza eredi), causando l’unione dei due regni per la prima volta nella storia.
Il principio di tutto è da ricercarsi quando Giacomo I già re di Scozia, ottenne la corona di Inghilterra dopo la morte di Elisabetta (rimasta senza eredi), causando l’unione dei due regni per la prima volta nella storia.
Dal punto di
vista politico sorse un grosso problema: La cultura del re scozzese era
portata a considerare il potere monarchico donato da Dio. Perciò, il re non era
disposto a scendere a compromessi con un Parlamento, come quelli inglese
con larghi poteri. Tali problemi si
palesarono quando, nel 1625, succedette a Giacomo I, il figlio, Carlo I. Sotto
il regno di questo si palesò in tutta la sua gravità il problema riguardante
il Parlamento inglese.
Il re convocò il Parlamento nel 1628, chiedendo di poter emanare delle tasse per iniziare una campagna militare contro gli Ugonotti. Il Parlamento invece gli chiese conto di tutte le ingiustizie commesse durante il suo breve regno.
In seguito alla richiesta del Parlamento, il re rispose sciogliendolo e dando vita ad un governo personale. Tutti questi elementi portarono, alla fine, a una rivolta in Scozia. Il Parlamento venne riconvocato e venne proposta un’ordinanza per eliminare il re.
Questa non
riuscì ad essere approvata e causò la vera e propria guerra civile, che inizia
nel 1642, in un micidiale
intreccio di lotte fratricide dovute ad una miscela di interessi religiosi,
politici e di potere fra le varie fazioni.
Oliver
Cromwell (1599 – 1658) Come leader della causa dei
sostenitori del Parlamento contro Carlo I e come comandante supremo del New Model Army,
inflisse una sconfitta decisiva al re Carlo I, ponendo di fatto fine al potere assoluto della monarchia. Instaurò così la repubblica del Commonwealth
of England. Cromwell governò Inghilterra, Scozia e Irlanda con il titolo di Lord Protettore, dal 16 dicembre 1653 fino alla morte 1658.
Nella visione di Cromwell
religione e politica erano strettamente collegate, infatti egli era un fervente puritano. Era anche fermamente
convinto che la salvezza eterna fosse alla portata di tutti coloro che si
conformavano agli insegnamenti della Bibbia ed ai dettami della propria coscienza.
Era un tenacissimo
avversario della Chiesa
Romana Cattolica che, a suo parere, negava il
primato assoluto della Bibbia in favore del primato del Papa e della gerarchia ecclesiastica, autorità che accusava di
essere causa di tirannia e persecuzioni contro i protestanti in tutta Europa. Per questo motivo si batté
con vigore contro le riforme che Carlo I stava introducendo nella Chiesa d'Inghilterra,
come l'investitura di vescovi e l'introduzione di libri di preghiere in stile cattolico al posto ed
in contrapposizione allo studio della Bibbia.
La convinzione di Cromwell
che il cattolicesimo portasse inevitabilmente alla persecuzione dei protestanti
fu rafforzata dalla ribellione scoppiata in Irlanda nel 1641, in occasione della quale i
cattolici irlandesi massacrarono molti emigranti inglesi e scozzesi di fede
protestante. In Inghilterra il resoconto di questi episodi, gonfiato ad arte
dai Puritani per alimentare l'odio anti-cattolico, sarà una delle motivazioni
principali che Cromwell porterà a giustificazione della spietata durezza con
cui condurrà le successive campagne militari in Irlanda contro i cattolici.
Nel corso della guerra
civile Cromwell si trovò peraltro in contrasto anche con i gruppi più
estremisti della fazione protestante. Sebbene fosse alleato sia dei Quaccheri che dei Presbiteriani, Cromwell non approvava il
loro modo autoritario di imporre il proprio credo agli altri protestanti. Egli
si avvicinò quindi sempre più alla fazione "indipendente", che
sosteneva la necessità di garantire, una volta finita la guerra, la piena
libertà religiosa per tutti i protestanti.
Cromwell era inoltre un
seguace del Provvidenzialismo, dottrina secondo cui Dio si occupava direttamente degli affari del mondo terreno, influenzandolo
tramite le opere di "persone elette", che Dio aveva
"mandato" nel mondo proprio a questo scopo. Durante la guerra civile
Cromwell era fermamente convinto di essere uno di questi "eletti", ed
interpretò le vittorie da lui ottenute come segno evidente dell'approvazione
divina, e le sconfitte come un'indicazione che aveva compiuto qualche errore e
doveva cambiare direzione. Dopo la sepoltura la sua salma fu riesumata e
sottoposta dai suoi nemici al rituale dell'esecuzione postuma.
George Berkeley (1685 – 1753)
Innanzi tutto prendiamo atto che Berkeley è un
“nominalista”, come lo era Guglielmo d’Ockman. Ricordiamo che il nominalismo
era quella posizione all’interno della disputa sugli universali nel medioevo
che negava l’esistenza degli universali, negava l’esistenza delle idee generali.
Non esiste il concetto di uomo, o la natura uomo, ma esistono solo i singoli
individui particolari. La parola uomo è solo una comodità per poter parlare di
una categoria di individui con delle caratteristiche comuni. Esiste Mario,
esiste Giovanni, ma non esiste il concetto di uomo o l’idea uomo. Lo spirito
umano non possiede capacità astrattive, non elabora i concetti universali. Le
idee sono sempre particolari anche quando parliamo di uomo, abbiamo sempre in
mente un certo uomo. Anche quando immaginiamo un triangolo, immaginiamo sempre
un particolare triangolo, non certo la sua idea, ma ne parliamo per poterci
intendere con altri che hanno in mente la propria idea di un triangolo sicuramente
non generico, ma specifico. Non esiste l’universale “triangolo” o l’universale
“uomo”. Le idee generali hanno sempre e solo una funzione, quella di essere
solo segno di qualcosa.
Esse est percipi
Berkeley
arriva a dire che “l’essere si risolve nel suo venir percepito”. Esistono
quindi solo le percezioni. “ESSE EST
PERCIPI”. L’essere delle cose non è realtà, non è materia, è solo “essere
percepite”. Non esiste la realtà esterna al soggetto. È la prima forma radicale
di “immaterialismo”. Non esiste la materia, basta il pensiero per spiegare
quello che tutti i giorni vedo.
Proprio
gli empiristi che volevano rimare saldamente ancorati ai sensi stanno ora
dicendo che le cose non esistono. Esistono solo le mie sensazioni che sono un contenuto mentale.
Berkeley
comunque avverte una certa incoerenza di queste rappresentazioni mentali.
Intuisce che certi oggetti noi li percepiamo perché li ritroviamo sempre allo
stesso posto o li troviamo uguali alla nostra prima percezione anche se
qualcuno li ha spostati. Sentiamo quindi di non poter modificare col pensiero
cose che di fatto mi si impongono, perché intuisco che possano venire
dall’esterno (dal di fuori della mia mente). Ma questo qualcosa che è esterno a
me che cos’è. Non è la materia, perché non serve che ci sia la realtà concreta
per spiegare la permanenza di percezioni sempre uguali. Il mio orologio da
polso io lo vedo sempre e mi sembra proprio che esista, inoltre io non ho
nessun potere di modificare questa mia percezione. Berkeley allora dice che
esiste un’altra entità esterna al pensiero che dà alla nostra mente queste
percezioni. Questa entità è Dio.
Per
spiegarlo meglio partiamo da Cartesio che affermava che esiste il pensiero
“cogito ergo sum” e che con questo capisco che esiste anche Dio. Questo perché
essendo io un essere imperfetto non
posso pensare altro che all’esistenza di un essere perfetto sopra di me.
Dio allora diventa il garante che mi conferma che quando percepisco la realtà,
la realtà c’è davvero. Berkeley a questo punto si domanda, ma perché complicare
le cose, introducendo il pensiero, poi Dio e poi infine le cose. Perché mai Dio
deve fare il garante dell’esistenza delle cose. Dio invece di fare il garante
fa il produttore delle cose, cioè delle mie rappresentazioni mentali. Quindi
basta il pensiero e basta Dio. Dio che è esterno al pensiero e che proietta
nella nostra mente una sorta di film ben architettato.
Quindi
alcune idee sono indipendenti dalla volontà umana, non hanno la loro ragione
nella materia, ma bensì in una sostanza divina, in Dio.
Bertrand Russell (1872 – 1970), è stato un filosofo, logico, matematico
noto pacifista, premio Nobel e scrittore
de: “Perché non sono cristiano”.
Cioè, dice
Russell, se l’essere delle cose è l’essere percepite, cosa ci sta a fare un
pino quando nessuno è nelle sue vicinanze che lo possa percepire?
A questa
filastrocca di Russell risponde Ronald
Knox (1888 – 1957) pastore anglicano convertito al cattolicesimo. Questa
risposta per far capire che la realtà permane perché c’è una sostanza
immateriale, Dio, che fa si che le cose e il mondo permangano anche se nessuno
le percepisce.
Per
concludere: Berkeley quindi è sostenitore della non esistenza della sostanza
materiale. L’Empirismo arriva a dire che
non c’è la materia.
David Hume (1711 – 1778)
Anche il sole lo vediamo sorgere ogni mattina, ma
non è per una ragione, ma per puro sentimento o per fede o per abitudine, e se
non è per ragione non è filosofia. Se noi osservassimo la palla di biliardo
rossa che colpisce quella verde e la sposta, come potremmo stabilire quale
effetto si produrrà quando la palla rossa colpirà quella verde, non potendo
tener conto dell’esperienza e delle osservazioni fatte in passato del gioco del
biliardo?
Noi non potremmo rispondere dice Hume. Il concetto
di causa ed effetto, non è razionale, cioè non è filosoficamente spiegabile. È
spiegabile, per fede, per abitudine, ma non per ragione.
Il principio causa effetto è una congettura, ha
valore psicologico e di fede, ma non possiamo sostenere che un fatto è causa di
un altro, perché noi facciamo solo esperienza di cose individuali e di eventi
non connessi fra loro. La connessione la creiamo noi con la nostra fantasia e
immaginazione.
Hume poi dopo aver negato l’esistenza della
sostanza materiale e corporea, nega anche la sostanza spirituale.
Hume ci da questa idea che le persone
possano raggiungere due verità: “Come uomo sono convinto che io ci sono, che
esistono davvero le cose intorno a me anche quando io non ci sono, ma come
filosofo non posso proprio affermarlo”. “La
credenza e la filosofia, l’istinto e la ragione appaiono in contrasto fra loro.
Scommetto che qualunque sia in questo momento l’opinione del lettore, di qui a
un’ora egli sarà convinto che esiste tanto un mondo esterno quanto un mondo
interno”.
L’empirismo, quella corrente di
pensiero che vuole rimanere fedele alle cose come sono, in realtà le nega e
raggiunge il più totale scetticismo e non crede più a nulla.
La critica della sostanza corporea e psichica
Nel suo iter filosofico Hume fece rientrare in questo
ragionamento anche l'"io". Egli cercava infatti di scoprire
quale fosse quell'elemento che ci fa essere noi stessi quando tutto il nostro
corpo cambia incessantemente giorno dopo giorno.
Ne concluse che anche la sostanza dell'"io" era soltanto un amalgama di sensazioni. Infatti, ogni volta che ci addentriamo nel nostro io, incontriamo sempre una qualche particolare sensazione (piacere, dolore, caldo, freddo) e se riuscissimo ad eliminare ogni singola sensazione del nostro io non resterebbe nulla.
Ne concluse che anche la sostanza dell'"io" era soltanto un amalgama di sensazioni. Infatti, ogni volta che ci addentriamo nel nostro io, incontriamo sempre una qualche particolare sensazione (piacere, dolore, caldo, freddo) e se riuscissimo ad eliminare ogni singola sensazione del nostro io non resterebbe nulla.
Grazie a questo ragionamento Hume
affermò anche l'inutilità del tentare di dimostrare l'immortalità dell'anima,
in quanto del nostro io possiamo parlare soltanto in presenza
di sensazioni. Lo scetticismo
di Hume è dunque radicale. La conoscenza umana non può ambire a nessuna
certezza, a nessuna verità oggettiva e universale.
Filosofia della religione
Hume scrisse la Storia naturale della
religione dal 1749 al 1755. Nell'Introduzione, l'autore spiega che il fine
dell'opera è trovare i fondamenti della religione nella natura umana. Hume
ritiene che il problema dell'origine del sentimento religioso sia più difficile
da risolvere visto che a suo dire esistono popoli atei. La religione avrebbe la
sua genesi nel sentimento del timore e quindi conseguentemente in una speranza
di salvezza dopo la morte, pensata come fenomeno ineluttabile e drammatico, e
di esorcizzazione della potenza naturale attraverso l'affidamento al Dio, la
cui devozione garantisce che la Natura risulti "benigna" per l'uomo e
non più nemica incontrollabile senza un ordine che la razionalizzi. Per Hume la
fede è un sentimento irrazionale ed emotivo e non insegna all'uomo a
migliorarsi dal punto di vista morale, anzi spesso lo peggiora. L'opera si
chiude con queste parole: "Tutto è ignoto: un enigma, un inesplicabile
mistero. Dubbio, incertezza, sospensione del giudizio appaiono l'unico
risultato della nostra più accurata indagine in proposito. Ma tale è la
fragilità della ragione umana, e tale il contagio irresistibile delle opinioni,
che non è facile tener fede neppure a questa posizione scettica, se non
guardando più lontano e opponendo superstizione a superstizione, in singolar
tenzone; intanto, mentre infuria il duello, ripariamoci felicemente nelle
regioni della filosofia, oscure ma tranquille".
Lo scetticismo
Lo scetticismo è una posizione epistemologica che nega la possibilità di
raggiungere, con la conoscenza, la verità.
Lo scettico è colui che nega la
possibilità di conoscere la verità. Più in dettaglio sul piano gnoseologico, pur non negando di
possedere l'idea della cosa
pensata, lo scettico dubita che il pensiero della realtà sia una
rappresentazione attendibile della realtà stessa, poiché la conoscenza si basa
sui sensi, che danno percezioni
ingannevoli e mutabili nel tempo.
La presenza dello scetticismo segna
tutta la storia della filosofia occidentale. Esso, infatti, esprime un'istanza
tipica dell'essere umano: la sua perenne insoddisfazione di fronte al proprio
conoscere. Lo scetticismo può essere definito - in modo molto generico - come
il momento di dissoluzione di un dogmatismo. L'ipotesi scettica di volta in
volta si adegua al dogmatismo cui fa riferimento. La storia del pensiero
occidentale è continuamente segnata da questa oscillazione tra affermazione
dogmatica e reazione scettica.
Commento
di Don Claudio Crescimanno
È chiaro a questo punto che il passaggio dalla
filosofia classica greco medioevale alla filosofia moderna è anche il passaggio
da una ontologia (studio dell'essere in quanto tale, cioè delle
cose che ci sono, che esistono)
ad una gnoseologia (teoria della conoscenza).
È un passaggio dalla considerazione di
oggetti, di cose, di realtà, di enti in
quanto tali (cose che ci sono – ente deriva da essere), ad un
problema invece di come noi conosciamo le cose che ci stanno attorno e nelle
quali ci muoviamo.
Con la filosofia moderna, l’uomo pensatore,
l’uomo filosofo diventa un uomo che si preoccupa prima di tutto dell’aspetto
conoscitivo.
Abbiamo visto con Cartesio che il soggetto
conoscente, il soggetto pensante è al centro delle filosofia. Ora se il
soggetto è al centro e si deve mettere in relazione con la realtà, è
inevitabile che il ponte fra il centro e la periferia è la conoscenza. L’uomo
entra in relazione con il mondo esterno conoscendo. Quindi la vera filosofia è
il conoscere, anzi capire come funziona il conoscere.
Qui nasce allora un nuovo significato della
parola filosofia, non più “avere a cuore il sapere”, ma occuparsi solo del
problema della conoscenza, di come l’uomo conosce.
Qui ora abbiamo due filosofie, una che cerca
di risolvere il problema secondo una accezione razionalistica e una che
invece cerca di risolvere il problema secondo una accezione empiristica.
Ricordiamo che il razionalismo
è inteso come capacità autonoma e autosufficiente di approdare alla verità.
Quest'ultima viene progressivamente slegata da una dimensione contemplativa,
mentre la ragione non è più un semplice accessorio ma diventa lo strumento per
eccellenza della conoscenza.
L'empirismo è la
corrente filosofica secondo cui la conoscenza umana deriva esclusivamente dai sensi o dall'esperienza. Gli Empiristi negano che gli esseri
umani possano avere delle idee innate, o che esista qualcosa fosse conoscibile a prescindere dall'esperienza.
Gli antichi (greci e medioevali) invece non si
ponevano problemi in merito perché affermavano che sono le cose e il mondo che
vengono incontro all’uomo, che gli si impongono, perché esistono e si fanno
conoscere. Non è necessario nessun ponte, c’è una presa diretta.
Il ragionamento non fa una grinza, peccato che
l’empirista va oltre e afferma che, se ho l’occhio allenato, la cosa che ho di
fronte esiste, mentre se non ho l’occhio allenato la cosa che ho di fronte non
esiste. A questo punto, di fronte alla possibilità che la cosa esista per
certuni e non esista per altri, l’empirista dichiara che la cosa comunque non
c’è e chi la vede non è davanti ad una cosa reale ma semplicemente percepisce qualcosa che l’esperienza e
l’abitudine gli detta, ma che in realtà non c’è.
Abbiamo esaminato, la rivoluzione nella fede, poi la
rivoluzione nella politica, poi la rivoluzione nella scienza ed ora la
rivoluzione nella filosofia.
La rivoluzione nella filosofia ha creato anche una
frattura incolmabile fra l’uomo comune e il filosofo. L’uomo comune diventa un
povero ingenuo, perché vede, sente e crede cose che in realtà non ci sono.
Ingenuo anche perché non si rende conto che il problema dei problemi non è
quello di vivere (come da sempre) ma è quello di conoscere.
Il filosofo è invece colui che fa finta di essere come
gli altri (per non passare per matto, diremmo noi), ma grazie alla sua
sapienza, sa che la sedia su cui poggia non esiste, è solo una sua percezione.
Siamo quindi in pieno scetticismo, cosa che scava un abisso fra il sentire comune, al
quale si adegua anche il filosofo quando gestisce la sua quotidianità, e la
consapevolezza del filosofo sull’impossibilità che le cose esistano, quando
filosofeggia.
Abbiamo quindi il
filosofo, che è consapevole, che sa, che è iniziato alla verità vera delle
cose e, lontano mille miglia, l’uomo
comune che è un povero ingenuo che crede di vedere, di sentire e di toccare
cose che non ci sono.
Il problema di Dio (inserto di J.
Ratzinger)
Nell’immagine degli “occhi” di
Dio, che l’arte cristiana ci ha reso familiare, si è conservata questa visione
dai tempi più remoti: Dio è sguardo, Dio “vede”. Dietro a ciò traluce un
sentore originario che ci qualifica come uomini: il sentore di essere in
qualche modo “conosciuti”. L’uomo avverte che non esiste nascondimento
assoluto, che dappertutto il suo vivere resta “esposto” ad uno sguardo di
fronte al quale egli non si può coprire e nemmeno è possibile eludere:
sperimenta che il suo vivere è in fondo un essere “guardati”.
L’uomo può intendere in maniera molto ambivalente e contraddittoria
questa sua condizione. Può come sentirsi in una pubblica piazza, e provarne
disagio. Può scorgervi un incombente pericolo e sentirsi limitato nel suo
spazio vitale. Questo sentimento può così trasformarsi in un’amarezza greve,
crescere fino a diventare lotta appassionata contro quello strano “testimone”
che viene percepito come un invidioso nemico della propria libertà,
dell’illimitatezza del proprio volere e del proprio fare.
Ma può accadere anche l’esatto contrario. L’uomo, che è stato concepito
in un disegno d’amore, può trovare in questa presenza che dappertutto lo
accoglie, quella sicurezza che tutto il suo essere ricerca. Può scorgervi il
superamento della solitudine, che nessun essere umano potrebbe totalmente
colmare, e che purtuttavia rappresenta la contraddizione più radicale per
quell’essere che lancia incessantemente il suo grido e la sua invocazione,
rivolto a qualcuno che lo possa ascoltare, ad un autentico “tu”. In questa
misteriosa presenza egli può trovare la fonte della fiducia che gli permette di
vivere.
È qui che si decide il problema di Dio, che vi si può trovare risposta.
Essa dipende dal modo in cui l’uomo guarda la propria esistenza nella sua
“forma” originaria: se cioè egli vuole consistere “fuori” dallo sguardo di Dio,
cioè nella sua “autosufficienza”; oppure se, pur sentendosi incapace, egli è
grato a colui che accoglie e accompagna la sua solitudine.(tratto da
J. Ratzinger – il Dio di Gesù Cristo – Queriniana
1978)
Che si realizzi l’una o l’altra
opzione dipende dalle esperienze di relazione vissute che hanno impresso in noi
una visione di Dio giudice terribile o di Dio giusto ma misericordioso e che
“già ci aspetta”. Sarà poi l’uso della nostra libertà ad eventualmente
modificare questa visione e gli approfondimenti sul tema che decideremo o no di
fare.
La Rivoluzione moderna
Nessun commento:
Posta un commento