sabato 6 maggio 2017

3t-8-Dal Criticismo all'Idealismo

Le Slides e la Dispensa



















L’Idealismo


L’Idealismo nasce da un dibattito che segue alla grande filosofia di Kant ed è tutto interno alla Germania cioè alla filosofia tedesca.
Il dibattito è sulla “COSA IN SÉ” quello che avevamo chiamato il NOUMENO, per distinguerlo dal FENOMENO. Il Noumeno è la cosa in sé, come è davvero, il Fenomeno è ciò che percepiamo noi del noumeno, che vediamo esterno a noi.
La filosofia kantiana è una filosofia dualista, da una parte c’è il soggetto conoscente e dall’altra l’oggetto conosciuto. Da un lato c’è ciò che dell’oggetto appare, cioè il fenomeno, che il soggetto conosce e dall’altra parte c’è la cosa in sé, il noumeno, pensabile ma non conoscibile.
Gli idealisti scorgono in questa filosofia di Kant una contraddizione fondamentale e in filosofia “ciò che è contraddittorio non esiste”.
Kant affermava che noi dobbiamo accontentarci di esplorare e capire la sola “isoletta” dei fenomeni che ci è consentito di capire e non avventurarci oltre, cioè nel mare della metafisica, perché con essa non si potrà mai avere scienza (intendendo per scienza: cose dimostrabili con la ragione pura). Diceva anche però che “le cose esistono anche se non le conosciamo o non siamo in grado di conoscerle”. Kant infatti non è come Berkeley  un immaterialista (le cose non esistono nella realtà perché l’essere è solo il venir percepito). Per Kant l’essere c’è, le cose ci sono, ma le cose in sé, cioè come esse sono davvero, non lo sapremo mai.
Gli idealisti contestano a Kant questo noumeno, questa cosa in sé, che è solo pensabile e non conoscibile, perché di fatto Kant ha dichiarato che esiste.
Ha detto poi chiaramente che il fenomeno (ciò che noi conosciamo delle cose) è causato dal noumeno. Cioè il noumeno (la cosa in se stessa) è la causa del fenomeno che mi appare. Anche qui Kant applica una delle 12 categorie dell’intelletto alla “cosa in sé”, al noumeno. Vengono cioè applicate le categorie alle cose che non possiamo conoscere e non ai soli fenomeni, come aveva sempre affermato. Gli idealisti, dopo queste valutazioni, dichiarano che le “cose in sé” non esistono e che le tesi di Kant della “cosa in sé” (il noumeno) sono contraddittorie e quindi non vanno prese in considerazione.
L’idealismo afferma che non esiste nulla al di fuori del pensiero.
Esiste una e una sola realtà e che questa una e sola realtà è il pensiero, le idee. Rivediamo il percorso che è stato fatto.

Cartesio era partito dalla prospettiva che le cose potevano non esistere, perché tutto poteva essere solo una personale rappresentazione. Gli idealisti anche qui vedono una contraddizione, se Cartesio parla di rappresentazione, parla della rappresentazione di qualcosa che esiste. Cartesio diceva che esiste il pensiero, la sostanza, la “res cogitans”. Da questo pensiero si arriva all’esistenza di Dio (essere perfetto e per questo deve esistere). Dio per Cartesio è allora il garante che ci assicura che fuori da ciascuno di noi ci sono le cose.
Bercheley, applicando il rasoio di Ockham, dice di non moltiplicare indebitamente gli enti. Non servono i tre elementi: il pensiero, Dio e il mondo. Bastano il pensiero e Dio. Dio trasmette al pensiero i contenuti che sono la nostra realtà. Dio è il produttore e non il garante delle nostre impressioni, cioè delle cose fuori di noi. Berkeley afferma che non esiste solo il pensiero, ma esiste anche Dio. Il pensiero è un ricettore di ciò che Dio trasmette. Dio esiste, ma è esterno al pensiero, esiste al di à del pensiero.
La filosofia greca e quella medioevale, fino a Cartesio, era ed è realista. È più che convinta che ciò che pensiamo è anche ciò che c’è in verità, che fra pensiero e realtà non c’è contrapposizione, che quello che vediamo della realtà è la realtà com’è e su questa appoggia tutti i suoi ragionamenti e dimostrazioni.
La filosofia moderna ribalta tutta quanta la filosofia realista. C’È SOLO IL PENSIERO.  Quello che noi vediamo della realtà non è la realtà stessa ma è una nostra personale rappresentazione, il nostro pensiero. Tra noi e le cose c’è di mezzo l’idea e la nostra immaginazione. La sentenza di Kant che afferma che noi vediamo le cose solo come ci appaiono nella nostra mente, nel nostro pensiero, ma che comunque esistono al di là del pensiero è completamente negata dagli idealisti che affermano con forza che C’È SOLO IL PENSIERO.
L’Idealismo tedesco. Questi idealisti, con la loro logica tedesca, traggono la conseguenza: La realtà è il solo pensiero. Non c’è nulla fuori dal pensiero. Il pensiero è il tutto. Pensiero ed essere sono la stessa cosa visto che esiste solo il pensiero. C’è un’unica e sola realtà.
Siamo arrivati ad una filosofia che si può definire la più lontana dal buon senso comune e dalla saggezza dei greci e dai medioevali, cioè dalla loro teorica e pratica filosofia realista.
intesi del Realismo. Il realista muove dal presupposto che il mondo e i suoi componenti esistano indipendentemente dal soggetto conoscente e che le cose osservate, nonché le leggi di natura scoperte dagli scienziati, siano direttamente correlate con la realtà. Le teorie realiste descrivono esseri ed oggetti che esistono indipendentemente dagli osservatori, esse sono vere di per sé, e sono di fatto strumenti di apprendimento e di esperienza di ciò che ci circonda realmente.

Sintesi dell’Idealismo. L’idealista muove dal presupposto che non esiste alcunché al di fuori della pensabilità e la eleva a criterio unico di conoscenza. Quella che chiamiamo realtà o mondo è un sogno elaborato, una idea, risultante delle reazioni del nostro cervello a un qualcosa di esterno che non sarà mai intelligibile e analizzabile; una nostra costruzione, una “realtà inventata”.  Il cervello infatti è come un sistema chiuso, quindi non in contatto diretto con l’esterno, elabora gli stimoli che gli pervengono dal di fuori nei vari linguaggi dei recettori sensoriali, sicché tutta la conoscenza è produzione, attivazione e manipolazione di simboli.

Il Romanticismo (primi 30-40 anni dell’800)


È influenzato dall’idealismo e a sua volta alimenta l’idealismo. Negli ultimi anni del ‘700 l’illuminismo va in crisi e nasce in contrapposizione ad esso in Germania, diffondendosi poi in tutta Europa, il Romanticismo.
Questa nuova corrente tocca tutti i campi del sapere. Sono gli anni delle conquiste napoleoniche e l’area tedesca è già in parte occupata ed è presente un forte spirito anti-napoleonico e anti-francese (= cultura anti-illuminista). La fiducia, che l’illuminismo aveva nella ragione, va in crisi.

ILLUMINISMO: esaltazione della ragione e della scienza (ciò che ci accomuna)
ROMANTICISMO: esaltazione dei sentimenti e delle passioni (ciò che ci differenzia)
Dobbiamo tenere presente che il passaggio dall’uno all’altro non è però stato così netto: anche gli illuministi ritenevano importante il sentimento (Kant, Critica del giudizio, Rousseau, ecc.); e i romantici non condannavano la ragione “tout court”, criticavano si la ragione illuministica e l’intelletto scientifico kantiano, ma volevano farsi anche portatori di un nuove istanze:

A.   La RAGIONE SPECULATIVA e DIALETTICA capace di cogliere la realtà nel suo tutto e non rimanere ferma e impotente di fronte alle antinomie e alle opposizioni. L’intelletto kantiano invece si arrende di fronte ad esse poiché sostiene che noi non siamo in grado di conoscere il noumeno. La ragione speculativa e dialettica è in grado di cogliere la realtà come una totalità, ossia di cogliere sia il positivo sia il negativo attraverso una sintesi, che è una sorta di mediazione tra le due.

B.   La RIVALUTAZIONE DELLA STORIA E DELLA RELIGIONE (viene rivalutato molto il Medioevo) entrambe svalutate durante l’illuminismo poiché la storia era considerata come un insieme di errori e la religione come una superstizione (gli illuministi erano deisti, avevano cioè un’idea di Dio puramente razionale e ostile a riferimenti nella rivelazione divina).

C.   La TENSIONE VERSO L’INFINITO: l’uomo è una creatura finita che per sua natura risente di una tendenza verso l’infinito, esplicitata con una sorta di ribellione alla realtà e il desiderio di andare oltre, verso un mondo indeterminato. Da essa deriva la psicologia (o malattia) romantica, ossia un atteggiamento di irrequietezza interiore, inquietudine e nostalgia (infinito come qualcosa che ci è già appartenuto).

D.  CONCEZIONE MATERIALISTICA DELLA NATURA: gli illuministi la concepivano come un meccanismo da studiare razionalmente, mentre i romantici avevano una concezione panteistica della natura (Dio presente in essa, ritorno a Spinoza): concepivano la natura come una realtà vivente.

E.   IL CONCETTO DI “NAZIONALITÀ”

Riguardo alla stato facevano la stessa  operazione che applicavano all’individuo (esaltazione dell’aspetto che distingue l’individuo dagli altri uomini: i suoi sentimenti) e infatti non sostenevano più il cosmopolitismo illuminista (uomo = cittadino del mondo), ma esaltavano la singola nazione, sottolineando i singoli aspetti caratterizzanti la singola nazione. (NAZIONE = sorta di individuo, con una individualità storico-politica). Da qui una convinta difesa ed esaltazione dell’autonomia e dell’indipendenza della nazione.

L’Idealismo tedesco


È l’ASPETTO FILOSOFICO del Romanticismo. Questa corrente filosofica romantica (che riduce la realtà ad un’idea) nasce nei primi decenni dell’800 in Germania e ha 3 grandi esponenti:
1)   FICHTE, 2) SCHELLING, 3) HEGEL 

L’idealismo tedesco supera definitivamente il realismo filosofico, cioè l’idea che ci sia una realtà fuori dal pensiero, comprese realtà spirituali e Dio stesso. Non c’è altra realtà che il pensiero. È una forma di monismo, cioè è una filosofia monista e non dualista come quella di Kant. Esiste una sola realtà omnicomprensiva e questa è tutta e solo pensiero.
Mentre per Cartesio Dio è garante della realtà, per Berkeley Dio è il produttore delle nostre impressioni, per l’idealismo c’è un ‘unica e sola realtà e Dio è l’unica realtà che esiste. È una forma di panteismo spiritualistico, tutto è Dio. Il nostro pensiero è una manifestazione di questa unica sostanza che esiste e che richiama la “physis” omnicomprensiva. Tutto è nel pensiero. È una forma di immanentismo, per il quale non esiste un 'al di là' rispetto alla realtà che conosciamo e questo significa identificare Dio con il mondo, rifiutando quindi il 'trascendente'. Non c’è nulla che trascende in questa unica e sola realtà.

Johann Fichte (1762-1814)

Vita e opere

Povero, riesce però a studiare teologia grazie a un benefattore, affascinato da  Kant, si reca da lui e ne diviene amico. Professore universitario, si dimette con accuse di ateismo. Nel 1808, incita i giovani con i Discorsi alla nazione tedesca, dopo che le campagne napoleoniche hanno smembrato la Prussia. Nel 1813 si unisce ai combattenti nella battaglia di Lipsia con la quale la Germania ebbe la riscossa contro Napoleone; ma prende dalla moglie, che cura i feriti negli ospedali, una febbre epidemica e muore nel 1814. Opere: Discorsi alla nazione tedesca; Fondamenti della dottrina della scienza.

Il pensiero

Fichte elimina la necessità della cosa in sé (noumeno) di cui parlava Kant: infatti non ha senso ammettere l'esistenza di una realtà che si trovi oltre i nostri limiti conoscitivi. Per poter parlare di qualcosa è necessario averne una rappresentazione mentale, ovvero uno schema trascendentale, secondo quanto insegna la stessa Critica della ragion pura; come si può dire, pertanto, che esiste un oggetto se non lo posso ridurre alle forme a priori di un soggetto conoscente? Ne consegue che il fenomeno non è più un limite causato dall'inconoscibilità del noumeno, ma diventa una creazione del soggetto stesso. È così che si pone l'Idealismo: la realtà fenomenica è un prodotto del soggetto pensante, in contrapposizione al realismo, secondo il quale gli oggetti esistono indipendentemente da colui che li conosce. Fichte reinterpreta l'Io penso kantiano in senso trascendentale come la possibilità formale non solo del sapere ma anche dell'essere: l'Io si pone un limite ontologico per affermare la sua libertà e la sua dimensione infinita.
Fichte, grande ammiratore di Kant, passa dal campo gnoseologico (della conoscenza) a quello ontologico (dell’essere). Ricordiamo che l’“io penso” di Kant era una super categoria, ma questa non era un assoluto, dipendeva dalle cose. Fichte osserva che questo “io penso” che aveva intuito Kant, non è qualcosa di conoscitivo (gnoseologico), ma è l’essere stesso (ontologico), esiste solo l’io, solo il pensiero, solo il soggetto. Non c’è più l’oggetto. È un io assoluto, del quale noi siamo una manifestazione (o parte dell’assoluto). Assoluto, cioè finito e completo in se stesso. (Assoluto infatti deriva dal latino “absolutum”: parola che veniva posta alla fine di un'opera importante insieme alla data e al luogo di stampa, per significare che era terminata, compiuta).

La filosofia moderna sfocia così nell’idealismo che afferma che esiste solo il soggetto. Non esiste nulla al di fuori del soggetto. Tutto quello che esiste è produzione dell’io, è produzione del pensiero. Non c’è nessun Dio garante, non c’è nessun Dio che proietta le cose nel nostro pensiero. È il nostro pensiero che produce tutto ciò che è.
Fichte nella sua opera, la “Dottrina della scienza” (il vero sapere), di cui farà molte riedizioni, dice sostanzialmente che ci sono tre principi che sostengono il vero sapere:
1.   Principio: l’io, è l’unica realtà esistente. L’io si autocrea. Il pensiero è una attività autocreatrice, che si autoimpone, che non ha bisogno di altri per esistere. Se non fosse così chi l’avrebbe creato? Qualcosa di esterno? Ma abbiamo escluso che ci sia qualcosa di esterno al pensiero. Esiste una e una sola realtà, il pensiero. Il pensiero è energia, è vitalità, è attività è generatore di se stesso. Pensiamo a quando ci viene in mente un’idea. Ne consegue che per attivarsi il pensiero ha bisogno di pensare a qualcosa, anche perché se non penso non esisto.
2.   Principio: l’io, per poter esistere e pensare a qualcosa, ha bisogno di qualcosa di diverso da sé (di esterno da sé): il “non io”. Il pensiero per esistere ha bisogno di un contenuto che può solo venire dal “non io”. Non posso pensare a niente, debbo pensare per forza a qualcosa e questo qualcosa deve venire da qualcos’altro  che si oppone all’io, cioè da un “non io”, da un “fuori di me”. Per attivarsi il mio pensiero ha bisogno di pensare a qualcosa che viene da fuori di me (annotiamo subito che qui Fichte si contraddice alla grande, perché di fatto ritira in ballo la “cosa in sé”, il noumeno, cioè il dualismo di Kant, che ha appena combattuto).
3.   Principio: l’io divisibile, l’io finito e l’io infinito. L’io, per Fichte , ha bisogno del “non io” per attivarsi e per capire che dopo ci dovrà essere un altro “non io” come nuovo stimolo per attivarsi e andare ancora oltre, verso un nuovo “non io”, sempre finito, limitato (divisibile dirà Fichte), ma che comunque sarà un altro mattoncino che farà parte di un infinito a cui tendiamo inesorabilmente.
Hegel dirà di Fichte: “la sua è una cattiva infinità” è cioè un continuo imporre un “non io” all’infinito senza ma i concludersi. Perché l’io ha sempre bisogno di opporsi ad un “non io” per poter esistere e attivarsi. A torto Fichte è considerato un idealista, perché di fatto è un dualista come Kant. La filosofia moderna porta di fatto a considerare l’io come qualcosa impegnato a fondo a superare continui ostacoli e ad affermarsi. Un io che ogni volta che raggiunge i suoi limiti si attiva per superarli e per superarsi. Il finito che si perde nell’infinito e che capisce che anche lui è parte dell’infinito. Il Romanticismo è specchio di questa filosofia e questa filosofia è specchio del romanticismo.

La filosofia della libertà


Fichte si definisce filosofo della libertà, perché avendo dimostrato che l’io è creatore di se stesso, che l’io si pone sempre limiti da oltrepassare, che l’io ha quindi un compito morale infinito e quindi che l’io non può che essere libero. La filosofia idealista è la filosofia della libertà.
La filosofia realista diceva che c’è un essere fuori di noi e che siamo noi ad adeguarci a come le cose sono. La filosofia realista era una filosofia che ci faceva credere che le cose esistono così come le vediamo o le tocchiamo o le pensiamo. La filosofia realista è quindi una filosofia dogmatica perchè definisce come dogmi delle verità non dimostrabili (con riferimento esplicito a san Tommaso, che invece le sue verità le ha dimostrate proprio con il più rigoroso uso della ragione). Fichte usa in modo improprio e scorretto, e con valenza negativa e dispregiativa, il termine “dogma” che significa invece “principio certo e inconfutabile di fede” e non applicabile ad una filosofia.
La filosofia realista, ribattezzata ora filosofia dogmatica, è per Fichte anche la filosofia dei deboli, di chi ha bisogno di aggrapparsi a qualche certezza perché ha paura di ragionare con la propria testa e di guardare in faccia la verità, perchè c’è sempre un limite da oltrepassare e che siamo noi i produttori della realtà. Esiste quindi una forte contrapposizione fra filosofia della libertà e filosofia realista e che Fichte si ostina a definire contrapposizione fra Idealismo e Dogmatismo: “Solo chi abbraccia la filosofia della libertà e abbandona i dogmatismi è un essere libero”.
La cosa più naturale di questo mondo, cioè l’esistenza delle cose, è diventato un dogma, una sorta di imposizione. Il grande scrittore inglese Chesterton, cattolico ex anglicano, dirà “verrà un giorno in cui bisognerà sguainare la spada per dire che l’erba è verde”.

L’Immaginazione produttiva


Noi comunque abbiamo la percezione che le cose esistano indipendentemente da noi, che non siamo noi a produrle. Fichte risponde a questa osservazione dicendo che ciò avviene in maniera inconscia e la chiama immaginazione produttiva. Noi siamo i produttori della realtà esterna a noi, solo che questo avviene in maniera inconsapevole e questo ci fa sembrare che le cose esistano anche senza di noi. È come nel sonno nel quale noi produciamo il sogno in modo inconscio. Quando non sogniamo è come se non avessimo vissuto. Il nostro cervello si attiva solo quando creiamo un contenuto, un qualcosa diverso dal sé, un “non io”. Il pensiero che produce il pensato.

La morale di Fichte


Fichte, che amava molto anche la Critica della ragion pratica di Kant, è considerato anche un pensatore morale, infatti affermava nella sua opera “Discorsi alla nazione tedesca” che: “… noi tedeschi siamo i primi ad aver capito che non c’è niente al di fuori del pensiero. Siamo i primi ad aver elaborato una filosofia della libertà, la libertà dell’io che crea il mondo. Noi tedeschi abbiamo allora una missione. Noi siamo coloro che dovranno insegnare al mondo che siamo il popolo della libertà. Abbiamo una missione civilizzatrice della Germania…”

Dal testo scolastico del prof. Nicola Abbagnano (1901 – 1990) insigne filosofo laico che ha elaborato una visione della ragione filosofica alternativa tanto al marxismo che al pensiero cattolico ricaviamo a proposito del tema principale dei “Discorsi alla nazione tedesca”, cioè l’Educazione, quanto segue:
… Fichte ritiene infatti che il mondo moderno chieda una nuova azione pedagogica, capace di mettersi al servizio, non già di una élite, ma della maggioranza del popolo e della nazione. Fichte sostiene che soltanto il popolo tedesco risulta adatto a promuovere la nuova educazione, in virtù di ciò che egli chiama il carattere fondamentale e che identifica nella lingua. Infatti i tedeschi sono gli unici ad aver mantenuto la loro lingua, che fin dall’inizio si è posta come espressione della vita concreta e della cultura del popolo, a differenza per esempio di quanto è avvenuto in Francia e in Italia dove i mutamenti linguistici e la formazione di dialetti neolatini hanno provocato una scissione fra popolo, lingua e cultura. Per questo i tedeschi, il cui sangue non è commisto a quello di altre stirpi, rappresentano l’incarnazione di un popolo primitivo rimasto integro e puro. Sono gli unici a potersi considerare un Popolo, anzi, il Popolo per eccellenza. I tedeschi sono anche gli unici ad avere una patria, a costituire una unità organica, che si identifica con la realtà profonda della nazione. I tedeschi hanno quindi l’impegno morale di civilizzare gli altri”.
Abbagnano prosegue facendoci osservare che: “Il primato che “Fichte assegna al popolo tedesco non è di tipo politico e militare, ma piuttosto di tipo spirituale e culturale. Fichte ritiene che il popolo tedesco debba avere come interesse ultimo l’umanità intera. I fini di quest’ultima sono i valori etici della ragione e della libertà. Ma tutto ciò, se da un lato scagiona il discorso da un affrettata interpretazione in senso pangermanista o razzista, dall’altro non toglie che la l'influenza storica maggiore si sia esercitata proprio in questo senso, nel pangermanesimo (Orientamento politico e culturale che aspirava all'unificazione nazionale di tutti i popoli di lingua tedesca). Infatti i discorsi parlano di primato, di missione, di popolo integro. In seguito queste  convinzioni hanno potuto costituire un testo chiave non solo del patriottismo, ma anche dello sciovinismo tedesco cioè di un nazionalismo fanatico ed aggressivo. Questo ha portato l’originaria supremazia spirituale in una supremazia di razza e di potenza, lungo un processo che ha trovato il suo epilogo oggettivo nel feroce nazismo del Terzo Reich.
L’albero cattivo lo si riconosce dai suoi frutti. Si evidenzia qui quanto le idee non sono cose astratte che lasciano il tempo che trovano o buone solo per inutili discussioni. Possono essere un semplice fuoco d’artificio che dura pochi secondi, come una deflagrazione che coinvolge intere popolazioni. Quando l’uomo pone se stesso come soggetto creatore della realtà, come unica realtà esistente e vuole decidere lui cosa è bene e cosa è male, si mette al posto di Dio: si riproduce così il peccato originale e tutto ciò che consegue.

Fichte e l’anarchismo


L’anarchismo è innanzitutto l'affermazione delle potenzialità individuali contro  la società borghese, contro lo Stato, contro tutte le forme di alienazione collettiva ed è un altro frutto dell’idealismo. Tutto comincia con Fichte ed i romantici tedeschi, con l'affermazione di un soggetto autonomo e assolutamente libero di auto-crearsi: “Con l'essere libero, cosciente di sé, appare allo stesso tempo tutto un mondo, a partire dal nulla”.
Il "Più antico programma dell'idealismo tedesco" (Fichte, Scelling, Hölderlin, Hegel), demolisce la legittimità dello Stato: “Soltanto ciò che è oggetto della libertà si chiama Idea. Dobbiamo dunque superare anche lo Stato! Perché ogni Stato è obbligato a trattare gli uomini come un ingranaggio meccanico; ed è quanto non deve accadere, bisogna dunque che si fermi”.

Fondato sull'idea di libertà, questo "Programma" è senza dubbio il primo manifesto anarchico, ben lungi dal culto dello Stato al quale si associa abitualmente il romanticismo tedesco e la cultura germanica. Nel suo fondo, il primo romanticismo è tendenzialmente anarchico ed annuncia il dadaismo. Il Dadaismo, o Dada, è una tendenza culturale nata a Zurigo, e sviluppatosi tra il 1916 e il 1920: ha interessato soprattutto le arti visive, il rifiuto degli standard artistici fino alle ideologie politiche; ha inoltre proposto il rifiuto della ragione e della logica, ha enfatizzato la stravaganza e il disgusto nei confronti delle usanze del passato. Dal primo romanticismo, che critica lo Stato-macchina e la società meccanizzata, all'anarchismo, non c'è dunque che un passo. 

Friedrich Schelling (1755-1854)

Vita e opere

Condiscepolo di Hegel a Tubinga, fonda insieme a lui il Giornale critico di filosofia, ma poi ruppe con l’amico quando questi pubblicò la Fenomenologia, in cui mostrava di voler percorrere altre vie. Fu professore a Jena, dove intorno a lui si formò il primo nucleo della scuola romantica (fratelli Schlegel); poi a Monaco e infine a Berlino. Opere: Idee sulla filosofia della natura; Sistema dell’idealismo trascendentale; Esposizione del mio sistema.

Idealismo oggettivo

Schelling si rende conto che Fichte ricade nel dualismo di Kant e quindi ci dice che se noi continuiamo a chiamare la realtà con i caratteri della soggettività, cioè l’io, non potremmo mai fare a meno di un oggetto contrapposto al soggetto per natura. Schelling quindi suggerisce di introdurre il concetto di assoluto, che è pensiero e che è quindi spirito, come unica realtà che ha in sé il soggetto e l’oggetto. Assoluto di Schelling come INDIFFERENZA DI SOGGETTO E OGGETTO. Assoluto che quindi può essere l’una come l’altra cosa.
a)   La filosofia di Schelling viene definita idealismo oggettivo (o filosofia della identità) poiché, reagendo all’idealismo soggettivo di Fichte che relega la natura al ruolo di semplice non-Io, restituisce ad essa la sua realtà e la sua dignità mettendola sullo stesso piano dell’Io.

b)   Secondo Schelling infatti occorre porre come originario un principio da cui derivano sia la natura che lo spirito, il soggetto e l’oggetto. Schelling identifica tale principio nell’Assoluto. L’Assoluto di Schelling assomiglia perciò alla Sostanza di Spinoza che pur essendo unica, si differenzia negli attributi dell’estensione e del pensiero. Ma mentre la Sostanza di Spinoza era concepita come qualcosa di statico, ovvero come l’ordine oggettivo che costituisce la realtà, l’Assoluto di Schelling è dinamico e perciò assomiglia anche all’Io di Fichte che intendeva quest’ultimo come un’incessante attività di superamento del non-Io.
c)   Diversamente da Fichte, Schelling sostiene però che la natura (il non-Io) possiede un suo valore autonomo, e differisce dallo spirito solo perché è inconscia e che tende verso la coscienza come la meta di un lungo processo che si compie soltanto nell’uomo. La natura è infatti una realtà dinamica e intimamente spirituale, una gradualità di processi entro i quali una coscienza addormentata si viene progressivamente svegliando. Si ha così una negazione della realtà della materia che viene ricondotta allo spirito sotto forma di forze di attrazione e repulsione.

d)   L’idea di fondo della filosofia di Schelling è che esiste uno stesso slancio  vitale che percorre e unisce natura e spirito, mondo e io, realtà materiale e realtà ideale. Essi formano una totalità, un organismo universale. Il sistema della natura e il sistema dello spirito non mettono dunque in luce che i due aspetti di uno stesso essere che può essere ritrovato percorrendo due vie diverse: partendo dalla natura per risalire allo spirito oppure partendo dallo spirito per risalire alla natura.
L’analisi filosofica di Schelling si articola perciò in due momenti:
1) Prima via: la filosofia della natura, che parte dall’oggettivo per derivarne il soggettivo. Essa descrive lo sviluppo della natura dalle sue forme più semplici (regno minerale, vegetale, animale, ecc.) fino all’emergere dello Spirito, con l’uomo.
2) Seconda via: la filosofia trascendentale, che parte dal soggettivo per derivarne l’oggettivo. Essa descrive come la spiritualità inconscia divenga Spirito consapevole nell’uomo e plasmi la realtà e la Storia.

Riassumendo, possiamo dire che Schelling traccia una vera e propria storia filosofica dell’Io, individuando tre momenti:
1.   Prima epoca: sensazione (l’oggetto è avvertito come estraneo, come un dato che limita l’io)
2.   Seconda epoca: intuizione (l’io comincia ad avvertire se stesso, ma si sente ancora immerso negli oggetti)
3.   Terza epoca: riflessione e volontà (l’Io si sente padrone degli oggetti e diventa consapevole di poterli gestire con la propria volontà). Entriamo qui nel mondo umano e nel campo della Storia, dove l’Io diventa padrone di sé e si autodetermina.
Hegel dirà di Schelling che il suo assoluto ”è come la notte nella quale tutte le vacche sono nere”.

Commento di don Claudio Crescimanno


Dobbiamo riconoscere che la filosofia tedesca ha dominato l’Europa da Kant fino ai nostri giorni. Ha dominato raggiungendo tutti gli ambiti del sapere teoretico e senza incontrare rivali o critiche significative. Nelle discipline pratiche come l’economia hanno avuto maggior influenza i pensatori anglosassoni, ma non vi è dubbio che nelle discipline teoretiche la Germania l’ha fatta da padrona. Tedeschi sono stati i filoni della destra Hegeliana e tedeschi sono stati i filoni della sinistra Hegeliana, che si sono combattuti, ma sempre e solo fra di loro. Tutti gli altri ne hanno solo subito le conseguenze. Anche in ambito religioso e non solo politico, tutte le esegesi, cioè la spiegazione delle sacre scritture da un punto di vista critico scientifico, si ispira agli autori tedeschi. Anche in ambito cattolico si sono mutuati i principi e le somme che essi hanno tirato, con un senso di infantile soggezione che dà pienamente ragione a quelle idee  che sembravano solo delle sparate nazionalistiche di un fanatico fuori dalle righe.
Il risultato pratico che ne deriva è che se noi abbiamo seguito con attenzione e abbiamo preso sul serio questi discorsi e ci sentiamo ora tutti degli imbecilli. Imbecilli  che vivono una vita inconsapevole, che credono che le cose intorno a noi esistano davvero e che la sedia sulla quale siamo casualmente seduti non esiste, ma stupidamente non ce ne accorgiamo, per questo non cadiamo. Siamo degli imbecilli, dove imbecillità è la condizione di chi è sciocco, credulone e poco intelligente (dal dizionario italiano), di colui che si fida di ciò che gli sembra e non capisce come invece stanno davvero le cose, che invece persone molto più intelligenti hanno capito.
L’idealismo, le cui prime tracce sono già nell’illuminismo e nel razionalismo, è la massima contraddizione rispetto al senso comune. È una contraddizione che tenta di far calare la notte su quanto capito e appurato in 2.500 anni di ricerca appassionata della verità. La conseguenza devastante è che tutto questo, non è rimasto nei salotti bene a riempire il tempo di sfaccendati intellettuali, ma è pesantemente entrato nei comportamenti anche della gente comune prendendo inesorabilmente il posto della religione e della morale. Si diffonde un’etica, cioè una regola di comportamento, che non ha altro riferimento che noi stessi. Cioè il fine dei nostri comportamenti non è più il nostro e altrui bene, ma quello che io decido cosa è bene per me e cosa è bene per gli altri, nessun riferimento esterno è ammesso. Dio sono Io.
Viene volutamente “rottamato” il concetto di Aristotele che “il bene si chiama  bene perché mi fa bene” e “il male si chiama male perchè mi fa male” (a me e agli altri). L’antica saggezza medievale diceva: bonum quia bonum aut bonum quia iussum? [bene perché è bene o bene perché è comandato?]. Cioè: il bene è tale perché è bene (bene in sé) o è bene perché è comandato da una legge? In altre parole il bene uno lo deve praticare perché è bene o perché altrimenti subisce una sanzione o un castigo? Una cosa è comandata (e anche raccomandata) perché è buona. Le regole per una corretta e giusta convivenza sono stabilite per il bene dei conviventi, non sono dogmi o imposizioni per sottomettere la gente. Così pure e da sempre, i 10 comandamenti. Essi mettono sostanzialmente in guardia dal fare cose che non sono il bene per l’uomo.  Il bene precede la legge. La legge scopre o individua o riconosce il bene e lo propone e lo comanda e raccomanda per tutti.
Questo vale sia per la vita spirituale dell’uomo che per il suo organismo fisico. Per esempio il nostro stomaco è fatto in modo che sono per lui un bene certi alimenti e male cert’altri; sono piacevoli, ma nocivi alcuni ingredienti e amari e indispensabili altri. Così i nostri comportamenti sono buoni o cattivi in dipendenza da come è fatto l’uomo, non da come decidiamo autonomamente noi o da come ci piace fare. Quindi l’arsenico è nocivo, non perché è proibito, ma perché ci fa male, il furto è una cosa cattiva, non perché è proibito e punito, ma perché è un male per se e per la comunità. Ci sono poi altre cose o comportamenti che mi fanno bene, che mi fanno crescere e che mi perfezionano (ad es. lo studio anche se mi costa sacrifici) e ci sono altre cose e altri comportamenti che deprimono e danneggiano la mia natura (cioè per come sono fatto) e che quindi mi rendono meno uomo (ad es. piaceri smodati che annullano la capacità di autocontrollo).
Dopo Kant tutto questo, nonostante i benefici di più di 2.000 anni, viene, non solo abbandonato, ma addirittura osteggiato. L’uomo vuole decidere lui chi è e come è fatto e quindi decidere lui cosa è bene e cosa è male per lui (anche qui è calzante il comportamento di Pinocchio, che non sa ancora bene chi è e in che mondo vive ma subito vuol fare quel che gli pare). Non gli interessa più la ricerca della verità, gli basta quella che decide lui. L’uomo è diventato il creatore del bene e del male, lui decide chi è e decide cos’ è giusto e cos’ è sbagliato per la sua vita, pur avendo idee poco chiare di chi è lui veramente (le avrebbe ma non le vuole ascoltare). È l’apoteosi del relativismo etico o come dirà poi Benedetto XVI  la “dittatura del relativismo”. In ultima analisi, tutto questo processo è l’ atto suicida dell’uomo moderno.

Idealismo - Enciclopedia dei ragazzi (2005), di Stefano De Luca


Per idealismo, nel linguaggio corrente, si intende un modo di pensare e di agire basato sulle convinzioni ideali e non sulle convenienze pratiche. In questo senso, idealista è colui il quale rimane fedele alle proprie idee, anche se ciò gli procura ‒ nella realtà ‒ svantaggi o insuccessi. Anche nel linguaggio filosofico il termine idealismo è legato al ruolo cruciale delle idee. Esso è stato usato in due diversi significati: per indicare quelle filosofie che ritengono dubbia o inesistente la realtà esterna (idealismo gnoseologico); oppure per indicare un'importante corrente della filosofia ottocentesca (idealismo tedesco), che interpreta la realtà come manifestazione di un principio infinito di carattere ideale.
Una teoria della conoscenza.
L'uso filosofico del termine idealismo si affermò, nel corso del Settecento, per indicare quelle filosofie che ‒ partendo da una certa concezione della conoscenza ‒ erano giunte a ritenere dubbia o inesistente la realtà esterna.
Da Cartesio in avanti si era infatti affermata la tesi secondo cui gli uomini conoscono soltanto le idee, ossia le rappresentazioni mentali delle cose. Quando osserviamo un albero, nella nostra mente si forma la rappresentazione dell'albero, ossia la sua idea: ed è con questa che abbiamo a che fare, non con l'albero in sé stesso, che è irrimediabilmente fuori di noi. Ma se ciò è vero, la realtà del mondo esterno diventa dubbia: se la nostra conoscenza è fatta solo di rappresentazioni mentali, chi ci garantisce che a esse corrisponda, fuori di noi, qualcosa di reale? Più in generale, chi ci garantisce che la realtà esterna esista? Cartesio dichiarò che l'esistenza delle cose esterne era dubbia, ma risolse tale problema dimostrando l'esistenza di Dio, che faceva da garante della verità delle nostre rappresentazioni (Dio non può aver creato esseri che si autoingannano).
Il filosofo irlandese George Berkeley (17 -18  secolo), partendo sempre dal principio che conosciamo soltanto le nostre idee, si spinse a negare la realtà del mondo esterno. Per lui esse est percipi, ossia "essere significa essere percepiti": una cosa esiste soltanto se c'è un soggetto che la percepisce, cioè che la pensa. In altre parole, la realtà esiste soltanto nel soggetto e quindi nelle idee: noi non conosciamo gli oggetti in sé stessi, come qualcosa di distinto dal soggetto; affermare quindi la loro esistenza è una pura assurdità.
Quanto a Kant, egli rifiutò le tesi di Cartesio e Berkeley (che definì idealismo materiale, in quanto riguarda l'esistenza del mondo esterno) ed elaborò una dottrina detta idealismo trascendentale, secondo cui i dati provenienti dalla realtà esterna ‒ la cui esistenza è indubbia ‒ sono conoscibili solo attraverso le categorie mentali del soggetto.

L’idealismo tedesco
Il punto di partenza dell'idealismo tedesco è rappresentato dall'eredità kantiana e, in particolare, dal problema della cosa in sé. Kant aveva affermato che noi conosciamo le cose come ci appaiono (fenomeni) e non le cose come sono (noumeni), cioè le cose in sé. Il nostro apparato percettivo e le nostre categorie intellettuali sono come occhiali di cui non possiamo liberarci: ed è soltanto per il loro tramite che possiamo conoscere la realtà esterna. È proprio il soggetto, con le sue categorie, a conferire universalità e necessità ai fenomeni. Quanto alle cose in sé stesse, esse rimangono irraggiungibili, cioè incomprensibili, dal momento che il soggetto non può uscire da sé stesso. Ma questo non significa che la realtà esterna sia dubbia o inesistente: per Kant la realtà esterna, anche se incomprensibile, comunque esiste ed è l'inizio di ogni processo conoscitivo.
Tale conclusione fu criticata da alcuni seguaci di Kant, i quali misero in luce come il maestro sarebbe rimasto a metà strada tra idealismo e realismo. Per un verso, Kant aveva compreso che tutto dipende dall'io, ossia dalla soggettività (idealismo); per un altro verso, però, era rimasto prigioniero della posizione opposta, quella secondo cui la realtà esiste indipendentemente dal soggetto (realismo). I filosofi idealisti abolirono decisamente la cosa in sé che dava ordine alla realtà per il tramite delle sue 12 categorie di Kant e introdussero un'entità infinita che crea tutta la realtà. Dal piano gnoseologico (cioè ponendoci la domanda "come conosciamo?") ci si è ora spostati al piano ontologico (per rispondere alla domanda "cosa è la realtà?"). I filosofi idealisti, del resto, volevano elaborare una dottrina della realtà, non una teoria di come giungiamo a conoscerla.

Anche se l'idealismo tedesco si sviluppa dalla discussione di un problema lasciato aperto da Kant, esso in realtà riflette una disposizione intellettuale e morale completamente diversa. Il pensiero di Kant rappresentava il culmine della filosofia moderna, che aveva fatto del problema della conoscenza il problema filosofico per eccellenza, giungendo a fissare precisi limiti alle capacità della ragione umana (l’isoletta del conoscibile umano, nell’oceano dell’inconoscibile). I filosofi idealisti sono invece dominati dall'insofferenza verso tali limiti e dall'aspirazione a ricostruire un sistema filosofico onnicomprensivo, che superi il dualismo tipicamente moderno tra finito e infinito, tra mondo e Dio, raggiungendo l'Assoluto. Nonostante la complessità delle tematiche e l'uso di un linguaggio molto difficile, la filosofia idealistica ebbe ampia risonanza, perché essa nasceva in realtà dalla coscienza acuta e drammatica dei problemi storici, politici e morali del suo tempo.
Non a caso, l'iniziatore di questa scuola ‒ Johann Gottlieb Fichte (18 -19  secolo) ‒ presenta il suo pensiero come il corrispettivo filosofico della Rivoluzione francese: come quest'ultima ha liberato "l'uomo dalle catene esterne", così la sua filosofia "lo libera dei ceppi delle cose in sé, dell'influenza esterna" e lo consacra come essere libero e indipendente. Il realismo, nella prospettiva di Fichte, non è solo una dottrina della conoscenza, ma un modo di essere: sostenere che il mondo esterno esiste in modo indipendente dal soggetto significa rinunciare alla nostra missione di esseri liberi, chiamati a trasformare il mondo e non a rassegnarsi fatalisticamente a esso. "Un carattere fiacco di natura o infiacchito e piegato dalle frivolezze, dal lusso raffinato o dalla servitù spirituale ‒ scrive Fichte ‒ non potrà mai elevarsi all'idealismo".

Le diverse concezioni dell'Assoluto
Per i filosofi idealisti tutta la realtà è espressione di un principio infinito, avente carattere ideale, che viene denominato in vario modo: Io, Idea, Spirito, Ragione e così via. L'uso della lettera maiuscola indica come non si tratti dell'io, delle idee o della ragione individuali, ma di entità sovra-individuali, che coincidono con la totalità o Assoluto. Questo Assoluto, però, non è un'entità trascendente ‒ come il Dio cristiano, che sta al di là del mondo e presenta caratteri opposti a esso (infinito contro finito) ‒ bensì un'entità, che coincide col mondo stesso,  immanente (cioè senza un 'al di là', senza  il 'trascendente' e che identifica Dio con il mondo). Inoltre, l'Assoluto non è qualcosa di immobile, sottratto all'azione del tempo, ma un processo dinamico la cui molla sta nell'urto tra gli opposti.
Siamo giunti così al tema cruciale della dialettica, di cui gli idealisti danno interpretazioni diverse, dalle quali discendono differenti concezioni dell'Assoluto. Per Fichte l'Io genera continuamente un non-Io (il mondo), perché soltanto la presenza di un ostacolo permette all'uomo di realizzarsi in quanto uomo, ossia in quanto essere che ‒ lottando contro le inclinazioni naturali ‒ afferma la sua libertà. Per Fichte, però, l'Infinito rimane soltanto un dover-essere, un orizzonte verso il quale l'io finito tende in uno sforzo continuo di approssimazione.
Per il secondo grande protagonista dell'idealismo ‒ Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (18 -19  secolo) ‒ il mondo o natura non può essere considerato un semplice ostacolo, una sorta di scena approntata soltanto perché l'Io si realizzi: in questo esasperato soggettivismo, l'idealismo fichtiano rivela di essere l'ultimo erede della "misera età cartesiana", caratterizzata dalla scissione tra spirito e natura. La filosofia, secondo Schelling, deve invece mostrare come spirito e natura siano originariamente uniti: l'Assoluto è precisamente questa unità indifferenziata degli opposti (dalla quale tutto deriva e alla quale tutto tende), unità che può essere colta soltanto da un'intuizione intellettuale, come quella cha ha luogo nell'opera d'arte.
L'Assoluto di Schelling sarà definito da Hegel: "una notte in cui tutte le vacche sono nere" (nella quale cioè è impossibile capire il colore delle cose e il loro vero significato). Per Hegel l'Assoluto non è un'unità indifferenziata (e quindi incomprensibile), bensì l'incessante trama dialettica della realtà, il continuo processo di differenziazione tramite le contraddizioni, che ha nella storia il suo grandioso teatro.

 

Lo Stato pedagogico (approfondimento)


Il nuovo Stato democratico-totalitario uscito dalla rivoluzione è, come vuole Rousseu, uno Stato pedagogico, uno Stato educatore, che ha il compito di inculcare nei giovani, anziché i principi del Vangelo, i principi della nuova religione umanitaria dei diritti dell’uomo e della libertà (?). Ed è ciò che in varia misura è a tutt’oggi applicato nelle scuole pubbliche statali.
Le scuole però sono nate “cattoliche” come abbiamo visto nel medioevo (le scuole monastiche, le scuole cattedrali e le università patrocinate dai Papi). Ma ancor prima, le comunità cristiane (minoranza esigua) immersi nell’oceano pagano della Roma imperiale, corrotta e lasciva, si organizzarono con maestri battezzati che aprono scuole private grazie alla libertà di insegnamento vigente a Roma, anche se fra i martiri troviamo insegnanti e precettori (come san Cassiano, san Flaviano, ecc.). la Chiesa ha sempre sostenuto la responsabilità educativa dei genitori e la formazione spirituale e culturale dei giovani anche per sostenerli dalle influenze morali negative dell’ambiente pagano e per prepararli a testimoniare la propria fede e ad essere in grado di fare dell’apostolato, come oggi con il Catechismo (?).
Con la caduta dell’Impero romano  d’Occidente, si ha il collasso di tutte le istituzioni pubbliche e il problema dell’educazione dei fanciulli ricade interamente sulle spalle della Chiesa e dei suoi preti e frati. Questa situazione dura per tutto il medioevo, come abbiamo già visto, ma poi subisce due gravi ferite: la cultura rinascimentale e la rivoluzione luterana.

 La cultura rinascimentale semina danni anche in ambito pedagogico con quella che verrà poi chiamata secolarizzazione o laicizzazione delle istituzioni scolastiche con le quali lo Stato cerca di riprendere il controllo dell’educazione dei giovani.
Erasmo da Rotterdam, teologo, umanista e filosofo olandese, considerato il maggiore esponente del movimento dell'Umanesimo cristiano e  Comenius teologo ed educatore ceco, considerato il padre dell'educazione moderna, sono i principali protagonisti e sostenitori (nonché colpevoli) di questo cambiamento.

La rivoluzione luterana, che oltre a distruggere il fittissimo tessuto delle  scuole cattoliche nei paesi protestanti, fa rapidamente passare il principio che ogni tipo di insegnamento, religioso o culturale debba essere soggetto al Principe e allo Stato. Vengono poste così le fondamenta di quella gestione totalitaria dell’istruzione pubblica che si imporrà in tutta l’Europa a partire dalla famigerata rivoluzione francese e, in particolare, nel novecento. Viene meno così l’armonioso sistema corporativo e sussidiario proprio dell’età medioevale nel quale lo Stato interveniva solo per sostenere e aiutare le iniziative delle famiglie, delle corporazioni e della Chiesa.
All’attacco luterano la Chiesa risponde con il Concilio di Trento, che in teoria avrebbe dovuto "conciliare" cattolici e protestanti, e che durò ben 19 anni, dal 1545 al 1563, che promosse l’istruzione popolare ad ogni livello. Nacquero così Ordini religiosi, come i Barnabiti, gli Scolopi, i Padri Somaschi, i Gesuiti che ricoprirono il continente europeo e il nuovo mondo di una fitta ragnatela di collegi e scuole di eccellente qualità (grazie alla forte motivazione e alla fede degli insegnanti) frequentate spesso anche dai figli di protestanti e di atei (come ancora oggi). Questo processo espansivo continuò poi nel ‘600 e nel ‘700  con l’aggiunta di altri ordini (i Fratelli delle Scuole Cristiane, le Orsoline di Angela Merici, le Visitandine di san Francesco di Sales, ecc.) e poi nell’800 con gli Oratori dei Salesiani di don Bosco e le loro le Scuole professionali e di arti e mestieri, ecc. Le così dette, e oggi contestate, Scuole Cattoliche.


La Scuola di Stato


Nella seconda metà del ‘700, si scatena un feroce assalto alle scuole cattoliche: lo Stato rivendica il primato e il ruolo esclusivo nell’organizzazione dell’istruzione e nega il diritto per la Chiesa a gestire propri istituti scolastici. L’illuminismo con Rousseu e i suoi compagni massoni riescono così a sottrarre i giovani all’influenza dei “preti” e dell’odiata Chiesa cattolica. L’opera educativa cattolica incontrerà serie difficoltà a continuare la sua missione, ieri come oggi, sia nel campo educativo che in quello sanitario e caritativo che subirà la stessa sorte.

Le Scuole Paritarie

Per scuola privata o paritaria si intende una scuola non amministrata dallo Stato. Queste Scuole hanno ampia libertà circa materie e insegnanti. Le scuole paritarie possono rilasciare titoli equivalenti ai diplomi rilasciati dalla scuola statale purché si sottopongano ai programmi del ministero dell'istruzione. I fondi necessari per l'ordinaria gestione della scuola si ricavano dalle rette pagate dai genitori degli studenti, dalle borse di studio di benefattori e da contributi statali, non sempre riconosciuti e sistematicamente contestati e ridiscussi dalle fazioni avverse al ruolo fondamentale della famiglia nell’educazione dei figli.
I genitori  cattolici o comunque quei genitori che sentono fortemente la loro responsabilità di educatori dei propri figli e che non vogliono che essi siano manipolati dalle ideologie invasive dei gruppi di potere che governano il paese (apparentemente democratici, ma totalitari di fatto e sfacciatamente massoni) e che sostanzialmente sostengono una galoppante secolarizzazione di tutte le istituzioni, questi genitori dicevamo, lottano da tempo per  una “libertà educativa”. Questa lotta ha permesso, in mezzo a mille difficoltà, di concretizzarsi con la realizzazione di Scuole Paritarie, cioè scuole private riconosciute alla pari di quelle statali ma con insegnanti che garantiscono il loro ruolo di co-educatori con i genitori e rispettosi dei “valori non negoziabili” (come li ha definiti Benedetto XVI) che il cattolicesimo propone. L’opinione pubblica ha reagito contestando sistematicamente queste Scuole paritarie da loro definite “le scuole dei ricchi” che sottraggono finanziamenti alla Scuola Pubblica e causa dell’inarrestabile degrado della Scuola stessa. Va però sottolineato che il degrado che si nota nella Scuola, come in altri Servizi Sociali gestiti dallo Stato (Ospedali, Ospizi, Case popolari, ecc.) è dovuto alla perdita di una forte motivazione a perseguire il bene comune di  molti operatori sociali che gestiscono la cosa pubblica per “mestiere” e non per “vocazione” come quando queste istituzioni sono nate. Per fortuna esistono molti casi, spesso poco noti, di vera e propria abnegazione di insegnanti e operatori sociali ai vari livelli e di Associazioni che aprono grandi spazi di speranza per un  mondo migliore.

Le Scuole Parentali

Le difficoltà economiche delle Scuole cattoliche che tentano sempre di accogliere anche i figli delle famiglie numerose e meno abbienti con iniziative private di raccolta fondi e con contributi statali che non compensano gli obblighi imposti dal Ministero della Pubblica istruzione, hanno suggerito la nascita delle Scuole Parentali. Scuole cioè “fuori contratto”, di proprietà dei genitori, che rinunciano ai pochi contributi statali e ad un riconoscimento ufficiale, per essere libere di scegliersi i propri docenti (come le scuole paritarie) ma di essere anche loro stessi docenti, di scegliersi i libri di testo più adatti e di operare in piena autonomia senza ricatti da parte dello Stato. Stanno nascendo quindi cooperative di genitori per gestire sia le scuole cattoliche paritarie che quelle libere, le parentali.
Le scuole libere (internamente libere) sono le strutture più adeguate per una autentica educazione, in armonia con i bisogni dei ragazzi. In effetti esse permettono una varietà pedagogica ed educativa che le scuole dirette dallo Stato non sanno più offrire. Le scuole parentali, sono realizzate da genitori che non vogliono delegare minimamente la propria responsabilità educativa e che chiedono per i figli una didattica in grado di formare uomini, sapendo che non c’è uomo più sinceramente e profondamente umano del cristiano. L’assillo dei problemi di tipo economico c’è come c’è in tutte le opere sociali e caritative della Chiesa Cattolica che si poggia sulle preghiere, sulla Provvidenza divina e sulla generosità dei cristiani. Sono sacrifici che vale la pena di affrontare. 
(Liberamente tratto dal “Dossier sull’Educazione” del n. 102 del marzo 2015 della rivista “Radici Cristiane” http://www.radicicristiane.it , vedi anche http://www.scuolahobbit.it  e http://educazioneparentale.org )

Legislazione sulla istruzione parentale


I genitori o gli esercenti la potestà parentale che intendano provvedere in proprio all’istruzione dei minori soggetti all’obbligo di istruzione nel primo ciclo, secondo quanto previsto dall’articolo 111 del decreto legislativo n. 297/94, devono rilasciare al dirigente scolastico della scuola del territorio di residenza apposita dichiarazione, da rinnovare anno per anno, di possedere capacità tecnica o economica per provvedervi, rimettendo al dirigente medesimo l’onere di accertarne la fondatezza.


La Rivoluzione moderna
·     PRESENTAZIONE


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