sabato 13 maggio 2017

3t-4-L'Empirismo inglese e l'approdo scettico

Le slides e la Dispensa





























Empirismo e Razionalismo

Empirismo e Razionalismo sono due grandi dottrine filosofiche che nell’età moderna hanno cercato una risposta agli interrogativi fondamentali della conoscenza umana: l’uomo, come conosce la realtà? Come arriviamo a conoscere le cose? In che modo possiamo stabilire se ciò che vediamo corrisponde alla verità?
L’Empirismo, (dal greco εμπειρια - esperienza) assegna un ruolo centrale all’esperienza sensibile. Solo attraverso i nostri sensi è possibile acquisire informazioni sulla realtà che ci circonda e procedere all’elaborazione dei concetti su cui costruire l’edificio del pensiero filosofico e scientifico. Questo porta ad affermare che non esistono idee innate, cioè non c’è nulla nell’intelletto che non provenga dai sensi.
Il Razionalismo, al contrario, ammette l’esistenza nell’intelletto umano di determinate idee universali e principi conoscitivi, prima e al di  là di ogni esperienza dei sensi. Grazie a questa dotazione innata, l’uomo può giungere attraverso elaborazioni della sola mente alla formulazione di un sapere vero. Nel ‘600 il principale rappresentante di questo orientamento filosofico è Cartesio che nel “Discorso sul metodo” invita a diffidare dei sensi che non possono fornire certezze alla mente, mentre la ragione umana è in grado di dedurre da sola la struttura razionale del mondo.
Dalla seconda metà del seicento ad oggi entrambe le dottrine hanno trovato nuove e diverse formulazioni, restando però due poli fondamentali per orientare la riflessione filosofica sulla conoscenza umana.
Qual è il problema di fondo della filosofia moderna? È il problema della conoscenza, cioè il problema gnoseologico: la ricerca della corrispondenza fra le nostre rappresentazioni mentali del mondo e il mondo come è nella sua realtà. Il problema gnoseologico occupa un percorso lungo 2500 anni, che va dai filosofi presocratici ai giorni nostri. Parte dallo stupore degli uomini che per la prima volta hanno lasciato nella storia una traccia della loro capacità di riflettere sulla realtà, e su un mondo che appariva loro “magico” e arriva fino ai giorni nostri, quelli della rivoluzione introdotta dal pensiero scientifico, e che al problema gnoseologico ha dato connotati nuovi.
Il filosofo contemporaneo Emanuele Severino vede la filosofia moderna come fatta di isole che rappresentano autori e pensatori che vivono autonomamente e apparentemente svincolati fra loro ma che comunque “galleggiano” su di un sottofondo comune che è il tema della conoscenza, la capacità del nostro pensiero di cogliere la realtà.
Alcuni elementi che caratterizzano la filosofia di questo periodo:
1.      l’indubitabilità del pensiero. Il pensiero esiste: “Io ci sono e il mio pensiero esiste”.
2.      l’indubitabilità del mondo. Il mondo esterno esiste. “io ci sono e il mondo esterno c’è”.
3.   esistono solo le cose dimostrabili, per evitare che la nostra rappresentazione mentale non    coincida con la realtà. Non si da per scontato che le cose esistono.
4.     viene contestata la filosofia realista. Cioè la certezza che il mondo esterno esiste ed è avvalorato dal senso comune. Osserviamo le cose e di fatto diciamo che ci sono. È il principio della filosofia realista, della filosofia antica, di quella medioevale ed anche della scienza moderna. L’oggetto si imprime nel soggetto. Il soggetto di fronte alla realtà è passivo. Non possiamo non sentire un suono, possiamo non ascoltarlo o pensare ad altro mentre lo sentiamo, ma non possiamo (se siamo sani) non sentirlo. La realtà e il mondo ci si impone
La nostra percezione sensibile ha per alcuni un carattere RIVELATIVO, mentre per altri un carattere OCCULTANTE.

Carattere Rivelativo dei sensi

 Cosa vuol dire che le nostre sensazioni sono rivelative? Sono rivelative della realtà. Vuol dire che c’è una corrispondenza fra l’effetto, per esempio un suono, e la causa che l’ha prodotto. Se sento una voce (effetto) che proviene da una stanza vicina sono sicuro che in quella stanza c’è qualcuno (causa). C’è cioè un legame fra l’effetto e la causa. Ovvero l’effetto mi dice qualcosa della causa. Le mie sensazioni mi rivelano le cose del mondo e che esse esistono.

 Carattere Occultante dei sensi

 Se invece dico che la nostra sensazione è occultante, vuol dire che il mio rapporto con il mondo, cioè la mia sensazione, è occultata da un velo che mi nasconde l’autentica conformazione della causa e quindi della realtà. Cioè l’esperienza sensibile non mi fa vedere la vera realtà.
Che cos’è per il razionalismo il sapere? Il sapere è dato dalla ragione. Questo perché la ragione può superare il velo che sta fra le sensazioni e la realtà. Questo le permette di non doversi basare sull’esperienza.

Il Razionalismo filosofico

Per il Razionalismo filosofico: La costruzione del sapere deve avvenire sulla base di principi conosciuti “a priori” o “innati”, cioè non attinti dall’esperienza. (è la via di Cartesio).
C’è un principio in noi che è innato che è indipendente dal mondo sensibile e attraverso il quale noi scopriamo che cos’è la realtà. Per poterlo fare dobbiamo andare al di là del mondo sensibile, cioè superarlo. Dobbiamo cioè costruire quella che è chiamata una parabola metafisica razionalista che scavalchi l’esperienza sensibile e l’osservazione della realtà con i nostri sensi ingannevoli. La ragione quindi non dipende dall’osservazione delle cose, ne può, anzi ne deve, fare a meno. Siccome quindi la conoscenza della realtà funziona indipendentemente dai sensi, questi non sono fondamentali, anzi debbono essere esclusi dalla conoscenza. Dobbiamo qui ricordare la metafisica di Aristotele che nella ricerca delle ragioni prime va al di là della fisica, ma nel senso di “al di sopra” della fisica, fino ad arrivare a Dio, causa di tutte le cose. Con Cartesio nasce una metafisica moderna che va al di là della fisica, ma in senso orizzontale, come un ponte sufficiente a scavalcare il velo che esiste fra i sensi e la realtà. Il razionalismo quindi salta a piè pari l’osservazione perché non si fida dell’immagine mentale che i nostri sensi ci danno della realtà.

L’Empirismo

L’Empirismo, invece, si propone come una radicale critica alla metafisica razionalista. Non accetta spiegazioni derivanti da principi innati, perché è più che convinto che tutta la nostra vita si basa solo su esperienze empiriche. Le cose innate non esistono. Esistono solo i sensi. Il nostro cervello, cioè il nostro sistema razionale, funziona solo dopo aver ricevuto le informazioni dall’esterno attraverso i nostri sensi. L’empirismo riconosce che il mondo sensibile ha dei limiti, non rivela tutta la realtà, ma è comunque questo quello che abbiamo a disposizione e non ce ne sono altri. La nostra conoscenza è questa e questo è l’unico terreno entro il quale ci possiamo e dobbiamo muovere. Il fondamento del sapere è dato dalla conoscenza sensibile e questa è data dall’esperienza. La ragione può lavorare solo sui dati di senso.

John Locke fu un filosofo e medico britannico della seconda metà del Seicento. Locke, invece di concentrarsi sul mondo, come è fatto e perché è stato fatto, si concentra su come l’uomo conosce. Questo aprirà la strada al criticismo kantiano. Infatti è considerato il padre del liberalismo classico e dell'empirismo moderno ed è stato uno dei più influenti pensatori che hanno anticipato l'illuminismo e il criticismo. Quel che interessa a Locke non è conoscere realtà supreme e improbabili, bensì quelle realtà che hanno più a che fare con la vita umana di tutti i giorni. Locke è in tutti i sensi figlio della tradizione empiristica inglese: a suo avviso la filosofia deve concretamente servire a risolvere i problemi umani di tutti i giorni e non deve costruire impianti metafisici poco realistici. 
Obiettivo della sua filosofia fu: stabilire genesi, natura e valore della conoscenza umana e definire i limiti entro i quali l’intelletto umano può e deve muoversi e quali sono i confini che non deve valicare, ossia quali sono gli ambiti che gli restano strutturalmente preclusi.
Anche lui come Cartesio crede che la nostra conoscenza derivi dalle idee. Qui non siamo però di fronte al concetto di idea classica, cioè forma sostanziale che sta nell’iperuranio, qualcosa che esiste davvero anche se in un’altra dimensione. Ma per idea si intende “un pensiero”, un contenuto della mente. Il problema ora è di capire come fa un’idea ad arrivare a noi.

Idee semplici e idee complesse


Locke afferma che non ci sono idee o principi innati. Nessun intelletto umano è capace di forgiare e inventare idee semplici (colore, forma, consistenza, ecc. in somma gli “accidenti” di Aristotele) che derivano invece dalla nostra esperienza. Per idee semplici si intendono dati che sono alla base della nostra conoscenza. Queste idee semplici ci vengono solo dall’esterno. L’uomo può solo combinare queste idee e formare delle idee complesse. L’esperienza risulta il limite della conoscenza umana.

La critica dell'innatismo

In contrasto con i cartesiani e i platonici della scuola di Cambridge, Locke nega che possano esistere idee innate; cioè idee «impresse nella mente dell’uomo, che l’anima riceve agli albori della sua esistenza e porta con sé nel mondo» come: l'idea di Dio o dell'infinito, oppure i principi logici, come ad esempio quello di non contraddizione o i principi morali universali, ecc.
Tutto quello che ritroviamo nella nostra mente deriva solo dalla nostra esperienza e non esistono idee che non abbiano un'origine empirica di esse. «Ma, ed è la cosa peggiore, questa argomentazione del consenso universale, che viene impiegata per provare l'esistenza di principi innati, mi sembra una dimostrazione che non c'è nessun principio al quale tutta l'umanità dia il proprio universale consenso. È evidente che tutti i bambini e gli idioti non hanno la minima apprensione o il minimo pensiero di quei principi. E la mancanza di ciò è sufficiente a distruggere quel consenso universale che deve necessariamente accompagnare tutte le verità innate.»
Anche per le norme morali o principi logici presunti universali, per negare il loro preteso innatismo basti pensare che: « [...] fra i bambini, gli idioti, i selvaggi, fra le persone rozze e illetterate, quale genere di massime si potrebbe scoprire? Le loro nozioni sono poche e ristrette, derivano solo da quegli oggetti che sono da loro meglio conosciuti e che impressionano i loro sensi in modo più frequente e più vivido».

L'empirismo di Locke

La negazione delle idee innate non era una novità nella storia della filosofia:  Aristotele contrapponendosi a Platone, e San Tommaso a San Bonaventura avevano già negato l'innatismo.
L'empirismo di Locke si differenzia dagli altri poiché il suo si fonda sulla convinzione che non esista principio, nella morale come nella scienza, che possa ritenersi assolutamente valido tale da sfuggire ad ogni controllo successivo dell'esperienza.
Ad esempio anche Galilei e Hobbes, si rifacevano alla conoscenza verificata dalle conferme dell'esperienza ma poi consideravano fuori da questa la struttura razionale matematico-quantitativa della realtà, attribuendole un valore assoluto di verità. Affermava infatti Galilei che l'intelletto umano, quando ragiona matematicamente, è uguale a quello divino.
L’intelletto è per Locke come una “tabula rasa” che però si alimenta delle informazioni che mano a mano riceve dall’esperienza che fa attraverso i suoi sensi.
Nei libri successivi del Saggio sull'intelletto umano, Locke imposta la sua parte costruttiva: la conoscenza, che non passa, come dimostrato, per l'innatismo, ma deve per forza essere di tipo empiristico: non c'è nulla nel nostro intelletto che pima non sia passato per i sensi. Detto questo, occorre esaminare come si acquisisce la conoscenza tramite l'esperienza. Locke accetta la definizione cartesiana di idea come oggetto della mente, anzi se ne serve per confutare l'innatismo: gli oggetti della mente comunemente detti "idee" secondo il pensatore inglese arrivano da due diverse fonti , il senso esterno (o sensazione) e il senso interno (o riflessione). Nonostante Locke sia a tutti gli effetti un empirista, non accetta che tutto derivi dalla sensazione: certo la sensazione esiste e sono sensazioni tutti i dati che riceviamo dall'esterno (suoni, odori, immagini, ...), tuttavia accanto alle sensazioni vi sono le riflessioni, ossia le informazioni che ricevo non già dall'esterno, ma dal mio mondo interiore.
Quindi l'esperienza ha per Locke una duplice fonte , il mondo esterno che dà le sensazioni e il mondo interno che dà le riflessioni, ossia che riflette lo stato d'animo del soggetto. Questi due tipi di idee, chiamate appunto idee di sensazione e idee di riflessione sono in prima battuta quelle che Locke definisce "idee semplici", contrapposte alle "idee complesse". Si dicono idee semplici quegli oggetti del pensiero il cui contenuto elementare non è ulteriormente scomponibile, e si dicono idee complesse quegli oggetti del pensiero composti il cui contenuto risulta scomponibile: l'idea di libro, ad esempio, è un'idea complessa, nel senso che è costituita da più idee congiunte: sarà l'unione dell'idea di forma data dall'ambito tattile e da quello visivo mescolate all'idea di colore (di più colori magari) e all'idea di peso .
Locke distingue poi, a ragion veduta, tra funzione passiva del senso e funzione attiva dell'intelletto: le idee semplici le riceviamo e basta, in modo del tutto passivo, tramite il senso; le idee complesse, invece, non le riceviamo passivamente tramite il senso: sono una riorganizzazione e aggregazione da parte dell'intelletto attivo di idee semplici: ricevo l'idea di blu, di parallelepipedo, di peso tramite il senso e con l'intelletto le riorganizzo congiungendole per dar vita all'idea più complessa della cosa che ho davanti. Per fare proprie le idee complesse occorre quindi la cooperazione tra senso che acquisisce le idee semplici e intelletto che le rielabora e le riorganizza.

Negazione della “sostanza”

Qui però notiamo che il concetto di “Sostanza” viene meno, anzi si stacca proprio. Locke, anche se accetta l'idea di causalità, egli rifiuta radicalmente quella di sostanza: la critica all'idea di sostanza è uno dei passi argomentativi più celebri del pensiero di Locke, che fa così traballare il classico edificio della metafisica : è tipica della filosofia inglese del 1600-1700 la critica ai contenuti della metafisica, la sostanza e la causa. Aristotele, a suo tempo, aveva definito come argomento principale della filosofia l'indagine sull'essere, indagine che si riduceva all'investigazione sulla sostanza: che cosa è la sostanza ?
In filosofia per sostanza, dal latino substantia, letteralmente traducibile con "ciò che sta sotto", si intende ciò che è nascosto all'interno della cosa sensibile come suo fondamento ontologico (studio dell'essere in quanto tale). La sostanza è quindi ciò che di un ente non muta mai, ciò che propriamente e primariamente è inteso come elemento ineliminabile, costitutivo di ogni cosa per cui lo si distingue da ciò che è accessorio, contingente, e che Aristotele chiama accidente. Per sostanza, in altre parole, si intende ciò che è causa sui, ovvero ha la causa di sé in se stessa e non in altro.
Per Locke tutto questo è pura immaginazione per “sostenere” (substantia) le idee semplici, ma non esiste nella realtà, la sostanza è una invenzione pratica per spiegare l’inspiegabile. Egli racconta di un indiano a cui era stato domandato su che cosa poggiasse il mondo; l'indiano aveva risposto senza esitare che il mondo poggia sul dorso di un elefante. Allora il suo interlocutore gli domandò su che cosa a sua volta poggiasse l'elefante e, dopo che l'indiano ebbe risposto senza tentennamenti che esso poggia sul guscio di una testuggine, gli venne nuovamente posto il problema su chi, a sua volta, poggiasse la testuggine: l'indiano rispose che essa poggiava su qualcosa che lui non conosceva.
Ora secondo Locke il nostro atteggiamento nei confronti della sostanza è esattamente analogo a quello dell'indiano nei confronti del mondo. La storia della filosofia e lo stesso senso comune hanno sempre portato l'uomo a ragionare in questo modo: vi è la sostanza libro di cui posso predicare vari attributi, quali il colore, la forma, il materiale, ecc. In altre parole, si è sempre dato per scontato che esistesse qualcosa cui si attribuiscono delle caratteristiche (colore, forma, sapore, materiale, ...) e questo qualcosa è sempre stato chiamato sostanza, ma è un artificio. La sostanza non esiste. La sostanza è più una nostra invenzione che una realtà vera. Siccome non sappiamo cos’è quella cosa che sta sotto un’idea semplice, noi di essa non abbiamo di fatto nessuna conoscenza. Per esempio l’uomo. L’uomo è un’idea complessa fatta da un insieme di idee semplici. A noi l’uomo ci si presenta nella sua immediatezza e lo diciamo “uomo”. Per poterlo indicare dovremmo dire che esiste la sostanza uomo, ma questa sostanza non esiste, anzi è impossibile. Alla domanda “che cos’è l’uomo” per Locke non c’è risposta.
Assertion of Liberty of Conscience by the Independents of the Westminster Assembly of Divines, 1644.  Durante la rivoluzione inglese i calvinisti puritani produssero la celeberrima Confessione di fede di Westminster, pilastro costituzionale del presbiterianesimo nelle terre anglofone. 

la fede religiosa

Locke, poi, inserisce un altro elemento: la fede religiosa. Essa si riferisce a cose di cui non possiamo avere la certezza perchè non sono intuite, né dimostrate, né sensazioni attuali: sono cose che ci vengono raccontate, ma che non abbiamo visto. Ora Locke, che si ritiene un buon cristiano, riprende la distinzione fatta a suo tempo da San Tommaso: vi sono delle cose nella fede religiosa che sono dimostrabili con la ragione, altre che non lo sono ma che tuttavia non si oppongono al raziocinio e altre ancora che gli si oppongono nettamente. Locke in “La ragionevolezza del Cristianesimo” spiega come i messaggi di cui si fa latore il Cristianesimo sono ragionevoli, ossia accettabili dalla ragione; sono messaggi che o sono accettabili dalla ragione o che le stanno sopra, senza però opporsi: tra i messaggi cristiani non ve ne sono mai alcuni che si oppongano alla ragione. Sostenendo queste tesi, il pensatore inglese prende le distanze dal Cristianesimo più estremistico che si stava andando ad affermare nell'Inghilterra di 1600. Certo, se la fede andasse contro la ragione saremmo tenuti a rifiutarla, ma la fede dice cose dimostrabili con la ragione (come l'esistenza di Dio e la sua unicità). Poi nella fede vi sono anche delle cose che vanno al di là della ragione umana , che le stanno sopra (above reason), ma tuttavia questo stare sopra non è mai un andare contro. Tuttavia, se la fede è accettabile proprio perchè non opposta alla ragione, si tratta di capire perchè si debbano accettare delle cose che, pur senza andare contro la ragione, le stanno sopra, non sono da essa dimostrabili. Locke fornisce una risposta a questo interrogativo dicendo che avere fede significa credere in cose indimostrabili con la ragione e allo stesso tempo inderivabili dall'esperienza, ma tuttavia testimoniate dal più sincero dei testimoni: Dio. I contenuti della religione cristiana derivano dalla Rivelazione, la quale (spiega Locke) non è contradditoria ai dettami della ragione (pur standole sopra) e ci è riferita da Dio, testimone sincero e buono (Dio, che è perfetto, non può che essere buono: l'aveva già dimostrato Cartesio). Ecco quindi che anche la fede rientra nella conoscenza probabile e non certa.
In conclusione del discorso gnoseologico, Locke paragona la ragione umana a una candela: essa ci illumina, però non su tutta la realtà, anzi su porzioni ristrette e non su tutte allo stesso modo. Tuttavia è l'unico strumento di indagine di cui disponiamo ed è stato Dio stesso a fornirci di questa candela conoscitiva: Egli ci ha fornito di quanto ci basta per conoscere: la nostra ragione, pur non essendo onnipotente, ci è sufficiente, tant'è che può dire la sua anche per quel che riguarda la religione.

La vita


La famiglia di John Locke rappresenta bene l’ambiente puritano, il mondo dei piccoli proprietari, attaccati alla legge divina ed ai diritti nuovi degli imprenditori, che avrà ragione della monarchia assoluta. 
La giovinezza di Locke coinciderà, infatti, con la Rivoluzione inglese (che comincia nel 1642 e terminerà nel 1649) con la deposizione e l’esecuzione del re Carlo I, e con il Commonwealth, posto sotto l’autorità di Cromwell fino alla morte di quest’ultimo, nel 1658. Il giovane Locke entra alla Westminster School nel 1647 ed al Christ Church (Oxford) nel 1652.
La sua cultura letteraria si estende allora alle discipline linguistiche, utili all’esegesi delle Sacre Scritture. Nel 1660 è lettore di greco, nel 1664, incaricato di filosofia. Si inizia tuttavia alla medicina, in particolare al seguito di Sydenham, ma soprattutto incontra Robert Boyle che gli rivela il nuovo volto della scienza fisica, allora la disciplina scientifica sottoposta alle più sconvolgenti innovazioni. Dal 1666 al 1683, Locke è il consigliere di  lord Ashley, e fa ingresso così in politica nelle file di coloro che vogliono limitare il potere degli Stuarts, restaurati sul trono dal 1660. Parteciperà anche alle attività dei “whigs” contro Carlo II.

Le opere

Nel 1671, inizia ad elaborare ciò che diventerà il Saggio sull’intelletto umano. Locke farà un lungo soggiorno in Francia (particolarmente a Montpellier dal 1675 a 1677), quindi, nel 1684, egli si stabilirà in Olanda, a Utrecht. Rientrerà in Inghilterra soltanto nel 1689, poco tempo prima che Guglielmo d’Orange diventasse re dell’Inghilterra e che la sovranità del Parlamento fosse definitivamente  garantita.  Questo stesso anno appaiono, in forma anonima, i due Trattati sul governo. La Lettera sulla tolleranza, apparsa in latino nel 1689 nei Paesi Bassi, è tradotta in inglese nel 1690, anno della pubblicazione del Saggio sull’intelletto umano: quest’ultimo sarà oggetto di modifiche successive, nel corso delle  quattro edizioni successive (1694, 1695, 1700, 1706). La traduzione francese della Saggio, apparsa nel 1700, susciterà la reazione di Leibniz con i suoi: Nuovi saggi sull’intelletto umano, che tuttavia sarà pubblicato soltanto in 1765, dopo la morte dei due filosofi.  

Oliver Cromwell e la Rivoluzione Inglese (inserto)


La rivoluzione inglese o guerra civile inglese si è svolta tra il 1642 e il 1660 ed ha influito notevolmente sui pensatori dell’epoca, a partire da John Locke.
Il principio di tutto è da ricercarsi quando Giacomo I già re di Scozia, ottenne la corona di Inghilterra dopo la morte di Elisabetta (rimasta senza eredi), causando l’unione dei due regni per la prima volta nella storia.
Dal punto di vista politico sorse un grosso problema: La cultura del re scozzese era portata a considerare il potere monarchico donato da Dio. Perciò, il re non era disposto a scendere a compromessi con un Parlamento, come quelli inglese con larghi  poteri. Tali problemi si palesarono quando, nel 1625, succedette a Giacomo I, il figlio, Carlo I. Sotto il regno di questo si palesò in tutta la sua gravità il problema riguardante il Parlamento inglese.

Il re convocò il Parlamento nel 1628, chiedendo di poter emanare delle tasse per iniziare una campagna militare contro gli Ugonotti. Il Parlamento invece gli chiese conto di tutte le ingiustizie commesse durante il suo breve regno.
In seguito alla richiesta del Parlamento, il re rispose sciogliendolo e dando vita ad un governo personale. Tutti questi elementi portarono, alla fine, a una rivolta in Scozia. Il Parlamento venne riconvocato e venne proposta un’ordinanza per eliminare il re.
Questa non riuscì ad essere approvata e causò la vera e propria guerra civile, che inizia nel 1642, in un micidiale intreccio di lotte fratricide dovute ad una miscela di interessi religiosi, politici e di potere fra le varie fazioni.

Oliver Cromwell (1599  1658) Come leader della causa dei sostenitori del Parlamento contro Carlo I  e come comandante supremo del New Model Army, inflisse una sconfitta decisiva al re Carlo I, ponendo di fatto fine al potere assoluto della monarchia. Instaurò così la repubblica del Commonwealth of England. Cromwell governò Inghilterra, Scozia e Irlanda con il titolo di Lord Protettore, dal 16 dicembre 1653 fino alla morte 1658.
Nella visione di Cromwell religione e politica erano strettamente collegate, infatti egli era un fervente puritano. Era anche fermamente convinto che la salvezza eterna fosse alla portata di tutti coloro che si conformavano agli insegnamenti della Bibbia ed ai dettami della propria coscienza.
Era un tenacissimo avversario della Chiesa Romana Cattolica che, a suo parere, negava il primato assoluto della Bibbia in favore del primato del Papa e della gerarchia ecclesiastica, autorità che accusava di essere causa di tirannia e persecuzioni contro i protestanti in tutta Europa. Per questo motivo si batté con vigore contro le riforme che Carlo I  stava introducendo nella Chiesa d'Inghilterra, come l'investitura di vescovi e l'introduzione di libri di preghiere in stile cattolico al posto ed in contrapposizione allo studio della Bibbia.
La convinzione di Cromwell che il cattolicesimo portasse inevitabilmente alla persecuzione dei protestanti fu rafforzata dalla ribellione scoppiata in Irlanda nel 1641, in occasione della quale i cattolici irlandesi massacrarono molti emigranti inglesi e scozzesi di fede protestante. In Inghilterra il resoconto di questi episodi, gonfiato ad arte dai Puritani per alimentare l'odio anti-cattolico, sarà una delle motivazioni principali che Cromwell porterà a giustificazione della spietata durezza con cui condurrà le successive campagne militari in Irlanda contro i cattolici.
Nel corso della guerra civile Cromwell si trovò peraltro in contrasto anche con i gruppi più estremisti della fazione protestante. Sebbene fosse alleato sia dei Quaccheri che dei Presbiteriani, Cromwell non approvava il loro modo autoritario di imporre il proprio credo agli altri protestanti. Egli si avvicinò quindi sempre più alla fazione "indipendente", che sosteneva la necessità di garantire, una volta finita la guerra, la piena libertà religiosa per tutti i protestanti.


Cromwell era inoltre un seguace del Provvidenzialismo, dottrina secondo cui Dio si occupava direttamente degli affari del mondo terreno, influenzandolo tramite le opere di "persone elette", che Dio aveva "mandato" nel mondo proprio a questo scopo. Durante la guerra civile Cromwell era fermamente convinto di essere uno di questi "eletti", ed interpretò le vittorie da lui ottenute come segno evidente dell'approvazione divina, e le sconfitte come un'indicazione che aveva compiuto qualche errore e doveva cambiare direzione. Dopo la sepoltura la sua salma fu riesumata e sottoposta dai suoi nemici al rituale dell'esecuzione postuma.

George Berkeley (1685 – 1753)


L’Empirismo continua con George Berkeley che sostanzialmente nega che esistano le sostanze, nega che esista la realtà fisica, nega che esista un mondo esterno a noi. Tutto si riduce alla percezione che noi abbiamo del mondo e delle cose. Esiste solo la nostra percezione.
Innanzi tutto prendiamo atto che Berkeley è un “nominalista”, come lo era Guglielmo d’Ockman. Ricordiamo che il nominalismo era quella posizione all’interno della disputa sugli universali nel medioevo che negava l’esistenza degli universali, negava l’esistenza delle idee generali. Non esiste il concetto di uomo, o la natura uomo, ma esistono solo i singoli individui particolari. La parola uomo è solo una comodità per poter parlare di una categoria di individui con delle caratteristiche comuni. Esiste Mario, esiste Giovanni, ma non esiste il concetto di uomo o l’idea uomo. Lo spirito umano non possiede capacità astrattive, non elabora i concetti universali. Le idee sono sempre particolari anche quando parliamo di uomo, abbiamo sempre in mente un certo uomo. Anche quando immaginiamo un triangolo, immaginiamo sempre un particolare triangolo, non certo la sua idea, ma ne parliamo per poterci intendere con altri che hanno in mente la propria idea di un triangolo sicuramente non generico, ma specifico. Non esiste l’universale “triangolo” o l’universale “uomo”. Le idee generali hanno sempre e solo una funzione, quella di essere solo segno di qualcosa.
Morale, noi abbiamo un rapporto solo con le nostre rappresentazioni mentali. Berkeley, insieme a Locke e insieme a Cartesio, sostiene che noi non conosciamo la realtà come essa è veramente, ma la conosciamo come appare a noi. Questo è un evidente superamento e abbandono del realismo come lo abbiamo conosciuto fino ad ora.

Esse est percipi

Berkeley arriva a dire che “l’essere si risolve nel suo venir percepito”. Esistono quindi solo le percezioni. “ESSE EST PERCIPI”. L’essere delle cose non è realtà, non è materia, è solo “essere percepite”. Non esiste la realtà esterna al soggetto. È la prima forma radicale di “immaterialismo”. Non esiste la materia, basta il pensiero per spiegare quello che tutti i giorni vedo.
Proprio gli empiristi che volevano rimare saldamente ancorati ai sensi stanno ora dicendo che le cose non esistono. Esistono solo le mie sensazioni che sono  un contenuto mentale.
Berkeley comunque avverte una certa incoerenza di queste rappresentazioni mentali. Intuisce che certi oggetti noi li percepiamo perché li ritroviamo sempre allo stesso posto o li troviamo uguali alla nostra prima percezione anche se qualcuno li ha spostati. Sentiamo quindi di non poter modificare col pensiero cose che di fatto mi si impongono, perché intuisco che possano venire dall’esterno (dal di fuori della mia mente). Ma questo qualcosa che è esterno a me che cos’è. Non è la materia, perché non serve che ci sia la realtà concreta per spiegare la permanenza di percezioni sempre uguali. Il mio orologio da polso io lo vedo sempre e mi sembra proprio che esista, inoltre io non ho nessun potere di modificare questa mia percezione. Berkeley allora dice che esiste un’altra entità esterna al pensiero che dà alla nostra mente queste percezioni. Questa entità è Dio.
Per spiegarlo meglio partiamo da Cartesio che affermava che esiste il pensiero “cogito ergo sum” e che con questo capisco che esiste anche Dio. Questo perché essendo io un essere imperfetto non  posso pensare altro che all’esistenza di un essere perfetto sopra di me. Dio allora diventa il garante che mi conferma che quando percepisco la realtà, la realtà c’è davvero. Berkeley a questo punto si domanda, ma perché complicare le cose, introducendo il pensiero, poi Dio e poi infine le cose. Perché mai Dio deve fare il garante dell’esistenza delle cose. Dio invece di fare il garante fa il produttore delle cose, cioè delle mie rappresentazioni mentali. Quindi basta il pensiero e basta Dio. Dio che è esterno al pensiero e che proietta nella nostra mente una sorta di film ben architettato.
       Ritroviamo qui il principio del rasoio di Ockman che diceva che era inutile moltiplicare gli enti per spiegare le cose. Perché debbo avere tre sostanze per spiegare il mio rapporto col mondo: la sostanza pensiero “res cogitans”, la sostanza divina, Dio e la sostanza esterna “res estensa”. Dio trasmette ai nostri pensieri una realtà e noi la percepiamo. Non esiste comunque la materia esterna a noi, fuori dal pensiero c’è solo Dio.
Quindi alcune idee sono indipendenti dalla volontà umana, non hanno la loro ragione nella materia, ma bensì in una sostanza divina, in Dio.
Bertrand Russell (1872  1970), è stato un filosofo, logico, matematico noto pacifista, premio Nobel  e scrittore de: “Perché non sono cristiano”.
Cioè, dice Russell, se l’essere delle cose è l’essere percepite, cosa ci sta a fare un pino quando nessuno è nelle sue vicinanze che lo possa percepire?
A questa filastrocca di Russell risponde Ronald Knox (1888  1957) pastore anglicano convertito al cattolicesimo. Questa risposta per far capire che la realtà permane perché c’è una sostanza immateriale, Dio, che fa si che le cose e il mondo permangano anche se nessuno le percepisce.
Per concludere: Berkeley quindi è sostenitore della non esistenza della sostanza materiale. L’Empirismo arriva a dire che non c’è la materia.

David Hume (1711 – 1778)

 Ben più radicale è la posizione di Hume, che vive in pieno illuminismo e che critica anche il principio di causalità (causa effetto), anzi critica l’esistenza di qualunque sostanza, compresa la coscienza. Siamo di fronte a filosofi che seguono di fatto Guglielmo d’Ockman e il suo rasoio, che vogliono rimanere fedeli all’empirismo (l’esperienza) e al nominalismo radicale (esistono solo cose individuali e non categorie generiche).
Hume dice che noi, per abitudine e non per razionalità o esperienza, ma solo per abitudine, siamo portati a dire che a una cosa ne segue sempre un’altra. Cioè noi siamo portati ad associare una causa ad un effetto (es. un oggetto che cade e il rumore conseguente) ma che nella realtà sono indipendenti. La nostra natura umana per una sorta di fede innata tende a dire che una cosa è causa di un’altra. In realtà i fatti sono indipendenti. Nel caso di una palla di bigliardo rossa che ne colpisce un’altra verde e la sposta, per la nostra esperienza va vista come: 1. Una palla rossa che corre, 2. Una palla rossa che cozza con una palla verde, 3. Una palla verde che si sposta, cioè tre fenomeni distinti e indipendenti ma che noi associamo come conseguenti uno all’altro. È la nostra abitudine che li associa, perché nel passato abbiamo visto verificarsi, cioè abbiamo avuto esperienza, che questi tre fenomeni sono avvenuti sempre assieme, ma non è detto che in futuro possa succedere qualcosa di diverso.
Anche il sole lo vediamo sorgere ogni mattina, ma non è per una ragione, ma per puro sentimento o per fede o per abitudine, e se non è per ragione non è filosofia. Se noi osservassimo la palla di biliardo rossa che colpisce quella verde e la sposta, come potremmo stabilire quale effetto si produrrà quando la palla rossa colpirà quella verde, non potendo tener conto dell’esperienza e delle osservazioni fatte in passato del gioco del biliardo?
Noi non potremmo rispondere dice Hume. Il concetto di causa ed effetto, non è razionale, cioè non è filosoficamente spiegabile. È spiegabile, per fede, per abitudine, ma non per ragione.
Il principio causa effetto è una congettura, ha valore psicologico e di fede, ma non possiamo sostenere che un fatto è causa di un altro, perché noi facciamo solo esperienza di cose individuali e di eventi non connessi fra loro. La connessione la creiamo noi con la nostra fantasia e immaginazione.
Hume poi dopo aver negato l’esistenza della sostanza materiale e corporea, nega anche la sostanza spirituale.
Hume ci da questa idea che le persone possano raggiungere due verità: “Come uomo sono convinto che io ci sono, che esistono davvero le cose intorno a me anche quando io non ci sono, ma come filosofo non posso proprio affermarlo”. “La credenza e la filosofia, l’istinto e la ragione appaiono in contrasto fra loro. Scommetto che qualunque sia in questo momento l’opinione del lettore, di qui a un’ora egli sarà convinto che esiste tanto un mondo esterno quanto un mondo interno”.
L’empirismo, quella corrente di pensiero che vuole rimanere fedele alle cose come sono, in realtà le nega e raggiunge il più totale scetticismo e non crede più a nulla.

La critica della sostanza corporea e psichica

Per Hume la sostanza non era altro che una "collezione di qualità particolari" ovvero un insieme di stimoli e di sensazioni empiriche provenienti dall'esterno cementate dal nostro intelletto fino a creare un'idea di ciò che stiamo analizzando, creandoci l'impressione che ciò esista anche nel momento in cui noi non lo percepiamo.
Nel suo iter filosofico Hume fece rientrare in questo ragionamento anche l'"io". Egli cercava infatti di scoprire quale fosse quell'elemento che ci fa essere noi stessi quando tutto il nostro corpo cambia incessantemente giorno dopo giorno.
Ne concluse che anche la sostanza dell'"io" era soltanto un amalgama di sensazioni. Infatti, ogni volta che ci addentriamo nel nostro io, incontriamo sempre una qualche particolare sensazione (piacere, dolore, caldo, freddo) e se riuscissimo ad eliminare ogni singola sensazione del nostro io non resterebbe nulla.
Grazie a questo ragionamento Hume affermò anche l'inutilità del tentare di dimostrare l'immortalità dell'anima, in quanto del nostro io possiamo parlare soltanto in presenza di sensazioni. Lo scetticismo di Hume è dunque radicale. La conoscenza umana non può ambire a nessuna certezza, a nessuna verità oggettiva e universale.

Filosofia della religione

Hume scrisse la Storia naturale della religione dal 1749 al 1755. Nell'Introduzione, l'autore spiega che il fine dell'opera è trovare i fondamenti della religione nella natura umana. Hume ritiene che il problema dell'origine del sentimento religioso sia più difficile da risolvere visto che a suo dire esistono popoli atei. La religione avrebbe la sua genesi nel sentimento del timore e quindi conseguentemente in una speranza di salvezza dopo la morte, pensata come fenomeno ineluttabile e drammatico, e di esorcizzazione della potenza naturale attraverso l'affidamento al Dio, la cui devozione garantisce che la Natura risulti "benigna" per l'uomo e non più nemica incontrollabile senza un ordine che la razionalizzi. Per Hume la fede è un sentimento irrazionale ed emotivo e non insegna all'uomo a migliorarsi dal punto di vista morale, anzi spesso lo peggiora. L'opera si chiude con queste parole: "Tutto è ignoto: un enigma, un inesplicabile mistero. Dubbio, incertezza, sospensione del giudizio appaiono l'unico risultato della nostra più accurata indagine in proposito. Ma tale è la fragilità della ragione umana, e tale il contagio irresistibile delle opinioni, che non è facile tener fede neppure a questa posizione scettica, se non guardando più lontano e opponendo superstizione a superstizione, in singolar tenzone; intanto, mentre infuria il duello, ripariamoci felicemente nelle regioni della filosofia, oscure ma tranquille".

Lo scetticismo 

Lo scetticismo è una posizione epistemologica che nega la possibilità di raggiungere, con la conoscenza, la verità.
Lo scettico è colui che nega la possibilità di conoscere la verità. Più in dettaglio sul piano gnoseologico, pur non negando di possedere l'idea della cosa pensata, lo scettico dubita che il pensiero della realtà sia una rappresentazione attendibile della realtà stessa, poiché la conoscenza si basa sui sensi, che danno percezioni ingannevoli e mutabili nel tempo.
La presenza dello scetticismo segna tutta la storia della filosofia occidentale. Esso, infatti, esprime un'istanza tipica dell'essere umano: la sua perenne insoddisfazione di fronte al proprio conoscere. Lo scetticismo può essere definito - in modo molto generico - come il momento di dissoluzione di un dogmatismo. L'ipotesi scettica di volta in volta si adegua al dogmatismo cui fa riferimento. La storia del pensiero occidentale è continuamente segnata da questa oscillazione tra affermazione dogmatica e reazione scettica.

Commento di Don Claudio Crescimanno


È chiaro a questo punto che il passaggio dalla filosofia classica greco medioevale alla filosofia moderna è anche il passaggio da una ontologia (studio dell'essere in quanto tale, cioè delle cose che ci sono, che esistono) ad una gnoseologia (teoria della conoscenza).
È un passaggio dalla considerazione di oggetti, di cose, di realtà, di enti  in quanto tali (cose che ci sono – ente deriva da essere), ad un problema invece di come noi conosciamo le cose che ci stanno attorno e nelle quali ci muoviamo.
Con la filosofia moderna, l’uomo pensatore, l’uomo filosofo diventa un uomo che si preoccupa prima di tutto dell’aspetto conoscitivo.
Abbiamo visto con Cartesio che il soggetto conoscente, il soggetto pensante è al centro delle filosofia. Ora se il soggetto è al centro e si deve mettere in relazione con la realtà, è inevitabile che il ponte fra il centro e la periferia è la conoscenza. L’uomo entra in relazione con il mondo esterno conoscendo. Quindi la vera filosofia è il conoscere, anzi capire come funziona il conoscere.
Qui nasce allora un nuovo significato della parola filosofia, non più “avere a cuore il sapere”, ma occuparsi solo del problema della conoscenza, di come l’uomo conosce.
Qui ora abbiamo due filosofie, una che cerca di risolvere il problema secondo una accezione razionalistica e una che invece cerca di risolvere il problema secondo una accezione empiristica.
Ricordiamo che il razionalismo è inteso come capacità autonoma e autosufficiente di approdare alla verità. Quest'ultima viene progressivamente slegata da una dimensione contemplativa, mentre la ragione non è più un semplice accessorio ma diventa lo strumento per eccellenza della conoscenza.
L'empirismo è la corrente filosofica secondo cui la conoscenza umana deriva esclusivamente dai sensi o dall'esperienza. Gli Empiristi negano che gli esseri umani possano avere delle idee innate, o che esista qualcosa fosse conoscibile a prescindere dall'esperienza.
Gli antichi (greci e medioevali) invece non si ponevano problemi in merito perché affermavano che sono le cose e il mondo che vengono incontro all’uomo, che gli si impongono, perché esistono e si fanno conoscere. Non è necessario nessun ponte, c’è una presa diretta.
Ora invece con il modernismo, che qualcosa ci sia è da dimostrare, è da verificare, e come? Per l’empirismo si verifica attraverso l’esperienza, ma nei fatti gli empiristi verificano la realtà solo se riescono ad individuare una teoria della conoscenza che sia più perfetta possibile. Sarebbe come dire che l’oggetto che io ho di fronte, io lo capisco, lo colgo, lo conosco, nella misura in cui ho un occhio allenato, cioè in grado di cogliere il più perfettamente possibile l’oggetto che ho davanti.
Il ragionamento non fa una grinza, peccato che l’empirista va oltre e afferma che, se ho l’occhio allenato, la cosa che ho di fronte esiste, mentre se non ho l’occhio allenato la cosa che ho di fronte non esiste. A questo punto, di fronte alla possibilità che la cosa esista per certuni e non esista per altri, l’empirista dichiara che la cosa comunque non c’è e chi la vede non è davanti ad una cosa reale ma semplicemente percepisce qualcosa che l’esperienza e l’abitudine gli detta, ma che in realtà non c’è.
Il nostro empirista, dopo aver elaborato queste cose nel suo studio e convinto che nulla esiste veramente e che esistono solo le nostre sensazioni che sono un contenuto mentale e che ci danno solo la percezione delle cose “ESSE EST PERCIPI”, torna a casa, pranza con moglie e figli, si gusta la zuppa anche se non esiste e beve un buon vino, anche se non esiste e compiange i suoi simili che non si rendono conto che le cose non esistono e le usano come se esistessero, inconsapevoli della loro madornale ignoranza.
Abbiamo esaminato, la rivoluzione nella fede, poi la rivoluzione nella politica, poi la rivoluzione nella scienza ed ora la rivoluzione nella filosofia.
La rivoluzione nella filosofia ha creato anche una frattura incolmabile fra l’uomo comune e il filosofo. L’uomo comune diventa un povero ingenuo, perché vede, sente e crede cose che in realtà non ci sono. Ingenuo anche perché non si rende conto che il problema dei problemi non è quello di vivere (come da sempre) ma è quello di conoscere.
Il filosofo è invece colui che fa finta di essere come gli altri (per non passare per matto, diremmo noi), ma grazie alla sua sapienza, sa che la sedia su cui poggia non esiste, è solo una sua percezione.
Siamo quindi in pieno scetticismo, cosa che scava un abisso fra il sentire comune, al quale si adegua anche il filosofo quando gestisce la sua quotidianità, e la consapevolezza del filosofo sull’impossibilità che le cose esistano, quando filosofeggia.
Abbiamo quindi il filosofo, che è consapevole, che sa, che è iniziato alla verità vera delle cose e, lontano mille miglia, l’uomo comune che è un povero ingenuo che crede di vedere, di sentire e di toccare cose che non ci sono.

Il problema di Dio (inserto di J. Ratzinger)

 Il problema di Dio, come abbiamo visto, è sempre presente, ogni filosofo ed ogni pensatore dice la sua. A Dio ci si arriva attraverso lo studio del mondo che ci sta intorno, oppure lo si raggiunge direttamente col pensiero per necessità, oppure lo si nega così spudoratamente da renderlo ancora più presente. Morale ogni filosofo o pensatore nelle varie epoche storiche nota un bisogno di Dio, così forte che qualcuno lo nega solo perché non è come lo vuole lui. Sentiamo ora il più grande Filosofo e Teologo del momento, Joseph Ratzinger, cosa ci ha detto in proposito nel 1977.
Nella storia religiosa del genere umano Dio si attesta ovunque come quell’essere dotato di uno sguardo che vede ogni cosa e, più ancora, come atto del “vedere” per antonomasia.
 Nell’immagine degli “occhi” di Dio, che l’arte cristiana ci ha reso familiare, si è conservata questa visione dai tempi più remoti: Dio è sguardo, Dio “vede”. Dietro a ciò traluce un sentore originario che ci qualifica come uomini: il sentore di essere in qualche modo “conosciuti”. L’uomo avverte che non esiste nascondimento assoluto, che dappertutto il suo vivere resta “esposto” ad uno sguardo di fronte al quale egli non si può coprire e nemmeno è possibile eludere: sperimenta che il suo vivere è in fondo un essere “guardati”.
L’uomo può intendere in maniera molto ambivalente e contraddittoria questa sua condizione. Può come sentirsi in una pubblica piazza, e provarne disagio. Può scorgervi un incombente pericolo e sentirsi limitato nel suo spazio vitale. Questo sentimento può così trasformarsi in un’amarezza greve, crescere fino a diventare lotta appassionata contro quello strano “testimone” che viene percepito come un invidioso nemico della propria libertà, dell’illimitatezza del proprio volere e del proprio fare.
Ma può accadere anche l’esatto contrario. L’uomo, che è stato concepito in un disegno d’amore, può trovare in questa presenza che dappertutto lo accoglie, quella sicurezza che tutto il suo essere ricerca. Può scorgervi il superamento della solitudine, che nessun essere umano potrebbe totalmente colmare, e che purtuttavia rappresenta la contraddizione più radicale per quell’essere che lancia incessantemente il suo grido e la sua invocazione, rivolto a qualcuno che lo possa ascoltare, ad un autentico “tu”. In questa misteriosa presenza egli può trovare la fonte della fiducia che gli permette di vivere.
È qui che si decide il problema di Dio, che vi si può trovare risposta. Essa dipende dal modo in cui l’uomo guarda la propria esistenza nella sua “forma” originaria: se cioè egli vuole consistere “fuori” dallo sguardo di Dio, cioè nella sua “autosufficienza”; oppure se, pur sentendosi incapace, egli è grato a colui che accoglie e accompagna la sua solitudine.(tratto da J. Ratzinger – il Dio di Gesù Cristo – Queriniana 1978)
Che si realizzi l’una o l’altra opzione dipende dalle esperienze di relazione vissute che hanno impresso in noi una visione di Dio giudice terribile o di Dio giusto ma misericordioso e che “già ci aspetta”. Sarà poi l’uso della nostra libertà ad eventualmente modificare questa visione e gli approfondimenti sul tema che decideremo o no di fare.

La Rivoluzione moderna
·     PRESENTAZIONE


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