sabato 13 maggio 2017

3t-3-La Rivoluzione nella Filosofia

Le slides e la Dispensa















Sintesi del pensiero di Cartesio
















Cartesio e la Rivoluzione Filosofica

 

di Anna Lisa Schino “Enciclopedia dei ragazzi” (2005)
Il filosofo del "Penso, dunque sono".
Cartesio è uno dei fondatori del pensiero filosofico moderno. Temi del suo insegnamento sono stati: il rifiuto del sapere tradizionale insegnato nelle scuole, la necessità di dare un nuovo metodo alla ricerca filosofica e scientifica che parte dall'uomo e dai contenuti del suo pensiero, prendendo a modello la matematica, e la volontà di partire, per risolvere i problemi della certezza della conoscenza umana, dell'esistenza di Dio e dell'immortalità dell'anima.

La vita

Cartesius è la forma latinizzata del nome del filosofo francese René Descartes,  nato a La Haye nel 1596 (in Turenna, nel bacino della Loira, con capoluogo Tours). Compie gli studi canonici nel collegio gesuita di La Fléche, dove resterà circa nove anni seguendo i tre corsi regolari di grammatica, retorica e filosofia.  Nel 1616 si laurea in diritto. Due anni dopo si arruola nell'esercito dei Paesi Bassi guidato da Maurizio di Nassau, di religione protestante; s'imbarca quindi per la Danimarca e raggiunge la Germania dove è scoppiata la guerra dei Trent'anni.
(Nella prima metà del XVII secolo d.C. l’Europa fu sconvolta da un conflitto religioso e politico che infuriò tra i principati del Sacro Romano Impero. Le ostilità furono provocate dal tentativo dell’imperatore Ferdinando d’Asburgo di convertire l’impero in un unico stato centralizzato e cattolico. Questo conflitto, durò a fasi alterne per trent’anni: dal 1618 al 1648).
Passa l'inverno del 1619 in grande solitudine ("chiuso dentro una stufa", come lui stesso scriverà), studiando e meditando: sta cercando di definire il vero metodo della scienza per costruire un nuovo sapere.
Tra il 1620 e il 1625, abbandonata la vita militare, compie numerosi viaggi soprattutto in Italia e in Francia. Si stabilisce quindi a Parigi, dove frequenta gli ambienti letterari e mondani e i circoli scientifici. Nel 1628 decide di gettare le basi di una nuova filosofia. Si ritira quindi nei Paesi Bassi, dove maggiore è la tolleranza verso le nuove teorie filosofiche e scientifiche, e lì prosegue le sue ricerche.
Nel 1637 pubblica a Leida tre saggi (Diottrica, Meteore e Geometria) assieme a un'importante prefazione intitolata Discorso sul metodo. Contemporaneamente, intavola un fitto scambio di lettere con studiosi di tutta Europa. Scrive quindi un saggio di metafisica, le Meditazioni sulla filosofia prima, pubblicate a Parigi nel 1641 assieme alle Obiezioni, avanzate da altri filosofi ai quali aveva mandato il testo in lettura, e alle sue Risposte.
Nel frattempo decide di scrivere un intero corso di filosofia nel quale le sue idee vengono presentate sotto forma di tesi: sono i Principi di filosofia (1644).
Inizia quindi (1647) una corrispondenza con la regina Cristina di Svezia, figlia di re Gustavo II Adolfo di Svezia, assai interessata alle sue idee, e nel 1649 si lascia convincere a intraprendere un viaggio in Svezia per darle lezioni. Proprio a Stoccolma muore per un'infreddatura nel 1650.

Il progetto e il metodo

Fin dall'inizio delle sue ricerche su musica, ottica, matematica e geometria, Cartesio segue un piano preciso: è il progetto di una scienza interamente nuova, sganciata dall'insieme di nozioni che si insegnavano nelle scuole. Per garantire piena libertà alla ricerca sul mondo fisico e alla riflessione sulla psiche umana, Cartesio afferma l'esistenza di due sostanze radicalmente diverse: la sostanza estesa, propria dei corpi che si estendono nello spazio; la sostanza pensante, propria della mente.

Il passo successivo è quello di disfarsi del patrimonio di conoscenze generalmente accolto, che Cartesio respinge in blocco, convinto che anche un solo uomo possa costruire un nuovo edificio del sapere, se riesce a individuare il metodo esatto. Questo metodo è offerto dalle matematiche che forniscono la struttura logica, cioè il modello di ragionamento deduttivo da utilizzare. Tale modo di procedere viene sintetizzato nel  Discorso sul metodo in quattro regole: evidenza (non accogliere come vera una cosa a meno che non ti sembri tale con piena evidenza, cioè accogli solo quelle affermazioni sulle quali non puoi formulare il benché minimo dubbio), analisi (dividi ogni difficoltà che incontri in particelle), sintesi (organizza i pensieri con ordine, partendo dai più semplici per arrivare ai più complessi), enumerazione e revisione (fai verifiche ed enumerazioni complete e generali).


Fisica e metafisica

Nel trattato incompiuto sul  Mondo Cartesio propone le sue ipotesi sulla struttura corpuscolare del mondo fisico: parla della natura della luce, della teoria dei vortici di materia eterea al centro dei quali ruoterebbero in cielo stelle e pianeti, espone le leggi del moto (tra cui la legge d'inerzia), la sua fisiologia, anatomia e psicologia. Il tentativo di spiegazione è rigorosamente meccanicistico: tutti i fenomeni fisici, biologici e psicologici appaiono a Cartesio conseguenze necessarie del moto di corpuscoli (particelle di materia, dalle forme e grandezze diverse), impresso originariamente da Dio, ma sottoposto a leggi meccaniche immutabili.
Il percorso metafisico (così come si sviluppa nel Discorso sul metodo e nelle Meditazioni sulla filosofia prima) inizia invece dall'esercizio del dubbio più radicale, rifiutando tutte le conoscenze acquisite. I nostri sensi ci ingannano, per esempio un remo immerso in acqua ci appare spezzato, e in alcuni casi non sappiamo neppure se siamo svegli oppure sogniamo. Non solo temiamo di essere ingannati dai nostri sensi, ma potremmo anche essere ingannati da un genio (o spirito) maligno, molto più potente dell'uomo. Tuttavia, mentre dubitiamo, sappiamo di essere portatori di un pensiero: se vengo ingannato, se ho pensieri anche falsi, in una parola se dubito, esisto in quanto sono un'entità spirituale che pensa (dubito, ergo sum ‒ scrive Cartesio ‒ cioè "dubito, dunque esisto"). È a partire da questo punto che il filosofo inizia la ricostruzione del sapere, affermando la precedenza della sostanza pensante (l'anima) sulla sostanza estesa (il corpo): so di pensare prima di sapere di avere un corpo fisico esteso.

Dal pensiero al mondo

L'analisi del pensiero autocosciente (so di pensare) conduce quindi a stabilire che l'essere è inseparabile dal pensiero: il pensiero è un attributo che mi appartiene necessariamente e io so di esistere come essere pensante. E proprio dall'analisi di questo atto di autocoscienza Cartesio trae il suo fondamentale criterio di verità: posso dire "penso, dunque sono" in quanto vedo con la massima chiarezza che per pensare bisogna essere, dunque si potrà dire come regola generale che le cose che noi concepiamo molto chiaramente e molto distintamente sono vere. Tale conclusione sarà poi ampiamente criticata, nel Seicento, dal filosofo inglese Thomas Hobbes.
A partire dal possesso di questa prima verità, Cartesio cerca se sia possibile uscire dalla sfera del pensiero per recuperare una realtà fuori di esso.
La consapevolezza di esistere come essere pensante è una garanzia che, oltre a me, esiste anche una realtà esterna, la realtà del mondo fisico, descritto nei Principi di filosofia in termini meccanicistici. Anche per quanto riguarda l'uomo, il processo delle funzioni vitali e del sistema nervoso viene descritto in  termini puramente meccanici, fino al sopraggiungere della morte, intesa come dissoluzione della macchina umana.


Cartesio afferma quindi un netto dualismo tra corpo materiale (che funziona in base a principi propri) e sostanza spirituale (che è innanzi tutto coscienza); quest'ultima è unita ed è in relazione con il corpo attraverso la ghiandola pineale, collocata al centro del cervello.

Dal mondo a Dio

La via di ricerca è dunque quella dell'analisi dei contenuti del pensiero, cioè delle idee. Proseguendo su questa strada, troviamo che nella mente dell'uomo è presente l'idea di Dio come essere eterno, infinito, onnipotente e creatore; tale idea non può essere stata prodotta dall'uomo, che è invece limitato e finito. Dunque l'idea d'infinito (idea che ci appare chiara e distinta) è innata e deve avere la sua causa in un essere infinito (Dio appunto) che l'ha messa in noi. Risolto il dubbio e ottenuta la certezza metafisica dell'esistenza di Dio, Cartesio può quindi affermare che il criterio delle idee chiare e distinte e l'esistenza di un mondo esterno conoscibile dall'uomo in maniera veritiera poggiano su una garanzia offerta da Dio.

Cartesio scienziato

Assai importante è l'opera scientifica di Cartesio, che è stato un grande matematico, soprattutto per il nuovo metodo da lui introdotto in geometria: il metodo delle coordinate che permette di individuare un punto del piano per mezzo di una coppia ordinata di numeri. Questo metodo consente di tradurre i problemi algebrici in problemi geometrici e viceversa, fondando una nuova scienza, la geometria analitica.

Anche in ottica Cartesio ha conseguito risultati importanti, come la formulazione  delle leggi della rifrazione; inoltre in meccanica si deve a lui un enunciato del principio d'inerzia e delle leggi della comunicazione del movimento: ogni parte della materia ‒ scrive Cartesio ‒ conserva lo stesso stato, fino a quando le altre parti, urtandola, non la costringono a cambiarlo; inoltre, una volta che essa abbia cominciato a muoversi, continuerà a farlo con uguale forza, fino a quando le altre parti non la fermeranno o ne impediranno il movimento. (Tratto da Anna Lisa Schino “Enciclopedia dei ragazzi” 2005)

Le reazioni al pensiero di Cartesio

A Parigi, il gesuita Pierre Bourdin organizza un dibattito pubblico nel quale vengono messe in discussione le tesi filosofiche di Cartesio, in particolare le teorie esposte nella "Diottrica". Cartesio rimane molto turbato da questi attacchi. Inizia in questo anno la stesura dei "Principia philosophiae".
Sul piano culturale la situazione precipita talmente che nel 1642 il senato accademico dell'università di Utrecht vieta l'insegnamento della "nuova filosofia" cartesiana. A Utrecht escono due libri di Voet e del suo ex allievo, Martijn Schoock, nei quali è accusato di ateismo. Cartesio reagisce con l' "Epistola ad celeberrimum virum D. Gisbertum Voetium".
Anche l'università di Leida condanna sul piano teologico Cartesio, accusato ora di essere "più che pelagiano e blasfemo". Amareggiato da questi voluti fraintendimenti del suo pensiero, parte per la Francia. Dopo un soggiorno in Bretannia e in Turenna, a Parigi incontra Blaise Pascal, fragile e malato, e con lui discute problemi relativi al vuoto, alla pressione dell'aria e alle esperienze condotte da Torricelli. Tornato in Olanda, rielabora alcuni suoi precedenti appunti di ricerche nel campo della fisiologia e inizia la redazione di "Primae cogitationes circa generationem animalium" (pubblicati postumi).

La Scienza cartesiana


Nell'infuriare delle polemiche è per Cartesio di conforto l'interesse che per le sue ricerche manifesta Cristina di Svezia. Nell'inverno si reca a L'Aja per conoscerla. Tra la fragile e melanconica principessa e il filosofo si stabilisce una forte intesa intellettuale; Cartesio ne ammira lo spirito pronto e riflessivo. A lei dedicherà i "Principia philosophiae". Il 20 novembre 1663 le sue opere vengono messe all'indice dalla Congregazione romana.

Riflessioni sulla filosofia di Cartesio


Cartesio, di fatto si pone il problema di rifondare il sapere dopo la delusione alla quale lo hanno portato gli approfonditi studi canonici compiuti nel collegio gesuita di La Fléche. È in questo senso che possiamo parlare di Rivoluzione, cioè azzerare tutto quanto impostato fino ad ora per ridisegnare un nuovo impianto del sapere. Egli è scettico su tutto quello che la tradizione gli ha trasmesso e arriva a promettere di fare un pellegrinaggio alla Madonna di Loreto, se sarà da lei aiutato ad impostare le fondamenta del nuovo edificio del sapere.
Il primo passo è quello di impostare un metodo, una regola che possa stabilire il corretto percorso del sapere. Questo percorso, come abbiamo visto,  deve partire dall’Evidenza: “non accogliere mai nulla per vero che non sia più che evidente, chiaro e distinto, senza nessuna possibilità di dubbio”. Seconda regola l’Analisi, cioè dividere ogni problema in sotto problemi più semplici. Terza regola la Sintesi, cioè condurre pensieri ordinatamente a cominciare dai più semplici ai più complessi. Quarta regola la Revisione, ricontrollare tutti i passaggi e verificare che non si sia perso nulla.
Fermiamoci un momento sul primo passo, l’Evidenza, che suggerisce di accogliere solo ciò che si presenterà in modo inequivocabile e incontrovertibile. Ma qui Cartesio comincia a dubitare di tutto, il così detto “dubbio cartesiano” adottato come metodo.

Con queste due frasi tratte dal “Discorso sul metodo”, Cartesio distrugge il valore dell’esperienza, distrugge totalmente tutta la Metafisica classica, tutto il sapere tradizionale.
In altre parole Cartesio dice di non fidarsi dell’esperienza, ma della sola ragione, negando quindi il realismo della filosofia greca e la filosofia dell’essere di san Tommaso d’Aquino.
Ecco perché si parla di rivoluzione radicale della filosofia. Con la filosofia classica il pensiero, quando conosce la realtà si lascia penetrare da essa. È la realtà che guida il pensiero. Ora invece si abbandona la realtà perché potrebbe essere una illusione, una pura rappresentazione mentale, che si frappone fra il pensiero e la vera realtà. Non possiamo più utilizzare come prima la realtà come inizio del filosofare, c’è sempre il forte dubbio che quello che vediamo sia un’immagine come quella dei sogni, che appaiono veri, ma che in realtà non lo sono. Tutto questa sembra di un rigore encomiabile, ma di fatto capovolge e rende vana tutta la faticosa e fantastica costruzione della filosofia classica, cioè mette in dubbio l’esistenza dell’essere.

Cartesio cerca di affermare che fuori del pensiero potrebbe anche esserci il nulla. La nostra mente, secondo Cartesio, non coglie le cose in quanto tali, ma coglie solo le modificazioni psicofisiche dei nostri sensi. Questo non ci garantisce che esista davvero qualcosa al di fuori del nostro pensiero. È in dubbio il mio rapporto con il mondo, c’è una separazione radicale fra il pensiero e l’essere. L’essere non è più guida al pensiero. Non possiamo quindi porre l’essere come fondamento per conoscere la realtà.
Potrei immaginare che io sia frutto di un genio maligno che gode  nell’ingannarmi e che mi fa credere anche nella bontà delle logiche matematiche” dice Cartesio. Quindi nemmeno la matematica potrebbe essere una scienza esatta, ma pure essa un inganno. Questo scrupolosissimo scetticismo di Cartesio, che Aristotele, sant’Agostino e san Tommaso avevano già liquidato con pochi ragionamenti perché contradditori in se stessi, è ora il punto di partenza della nuova filosofia.
Visto quindi che il dubbio assoluto mina alle fondamenta tutto il sapere e non c'è più un sapere sicuro, non ci sarà neppure una morale sicura: quindi la necessità per Cartesio, sino a quando non sarà ricostruito l'edificio del sapere, di costruirsi un riparo, un alloggio provvisorio, una morale provvisoria.

La ragione cioè lo obbliga, introducendo il dubbio assoluto, a sospendere tutti i suoi giudizi, ma questo significherebbe rinunciare anche alla morale, perciò si sente obbligato a far entrare dalla finestra una morale provvisoria le cui regole deduce dall'istruzione gesuitica ricevuta:
·         «obbedire alle leggi e ai costumi del proprio paese, osservando con fermezza la religione nella quale Dio mi aveva fatta la grazia di essere stato educato». Inoltre ispirare il proprio comportamento al modo di agire delle persone di più buon senso, più assennate. Poiché, sostiene Cartesio quello che più conta sono le azioni e non le parole;
·         sui problemi pratici più immediati, evitare gli eccessi e seguire la strada di mezzo, anche se non si è molto convinti.
·         risolutezza nelle azioni, una volta decisa una strada percorrerla sino in fondo altrimenti si rischia di fare come chi si è perso e indeciso gira su sé stesso.
·         quando infine si vede che le cose non vanno come uno desidera che vadano, allora, piuttosto che tentare di cambiare il mondo, conviene cambiare se stessi.

In questo panorama di dubbi e incertezze una sola cosa sembra essere certa e incontrovertibile: “Cogito ergo sum”, il fatto che se penso, sbagliando o no, dubitando o no, vuol dire che comunque almeno io sono. Attenzione però la frase completa è: “Cogito ergo sum res cogitans” , penso, quindi sono (non esisto, ma sono) una sostanza che pensa. Penso, quindi sono una sostanza che pensa.

La pietra fondamentale della nuova filosofia, del nuovo edifico della filosofi, è dunque l’esistenza del pensiero, il pensiero, almeno lui, esiste (Res cogitans).
Oltre che della propria esistenza il soggetto è anche certo delle proprie idee che sono per Cartesio l’oggetto immediato del pensiero stesso, cioè la rappresentazione che il soggetto ha necessariamente nell’atto del pensare. In questo senso egli non riconosce alcuna autonomia ad esse (come aveva voluto Platone) ma le considera assolutamente dipendenti dall’atto del pensare proprio dell’oggetto: senza il pensare non ci sarebbero idee.

Cartesio: le Idee e il loro rapporto con Dio

Se io sono sostanza pensante, il mio pensiero deve essere caratterizzato da un contenuto, ovvero deve configurarsi come idea. Cartesio distingue tre tipologie di idee:

1) IDEE INNATE: cioè nate con noi, sono come un patrimonio costitutivo della mente (l'idea matematica, l'idea di Dio), idee cioè connaturate alla mente,
2) IDEE AVVENTIZIE: derivano, tramite la nostra sensibilità, da oggetti esterni e sono indipendenti dall'uomo, idee cioè provenienti da cose esistenti all’infuori del soggetto,
 3) IDEE FITTIZIE (dal latino fingo, fingo, immagino): finzioni da noi inventate (come l'idea dell'ippogrifo o quella della chimera).

Il rapporto tra le idee e la realtà è però dubbio: non ne garantisce la validità. Cartesio allora cerca un punto fermo dal quale partire e che dia validità alle idee. Individua questo punto in Dio: infinitamente buono e quindi incapace di falsità o inganno.
Cartesio, prendendo da Sant’Anselmo, dice che in questo pensiero trovo l’idea di Dio, essere perfetto, che non posso aver pensato io, che sono limitato, deve per forza essere già dentro di me da prima. All’idea di Dio deve corrispondere l’esistenza.
Dopo la prima pietra (il pensiero) del nuovo edificio c’è la seconda che è Dio. Ora se c’è Dio ed è l’essere perfetto, Dio non può ingannare (non è il genio maligno), quindi diciamo che esiste la sostanza del pensiero ed esiste la sostanza Dio, cioè la realtà del pensiero e la realtà di Dio. Dio è allora il garante che mi conferma che la realtà fuori di me esiste. Dio comunque non garantisce tutti gli aspetti della realtà esterna, ma solo quelli quantificabili (aspetto matematico della realtà alla maniera di Galileo). Cartesio attribuisce a questa realtà esterna al soggetto il carattere dell’Estensione. In altre parole Dio garantisce che questo tavolo è 3 metri per 1 metro, ma non garantisce che sia davvero marrone come appare.
Quindi in Cartesio c’è il pensiero, c’è l’essere e c’è anche Dio. Non è più l’essere che fonda e guida il pensiero, ma è il pensiero che rifonda l’essere. Tutto parte dal soggetto e non dall’oggetto. Cartesio è il padre del soggettivismo moderno e della filosofia moderna. Cartesio rompe i ponti con la realtà che poi cerca disperatamente di ricomporre con qualche acrobazia.
Cartesio ora si trova di fronte a due sostanze, il pensiero e la realtà. La “Res cogitans” (la cosa pensata) è incorporea, è consapevole e libera, mentre la “Res extensa” (la realtà fisica) è corporea, è nello spazio, è inconsapevole ed è determinata.

Considerazioni finali


Ma come è possibile spiegare l’uomo nel quale queste due sostanze interagiscono continuamente pur essendo opposte una all’altra? Cartesio qui si inventa la funzione della ghiandola pineale che dice essere l’elemento che presiede a questi continui scambi fra pensiero e realtà, così come regola gli scambi fra le due parti uguali e simmetriche del cervello, emisfero destro ed emisfero sinistro. Ovviamente questa spiegazione di tipo biologico ha poco a che fare con la filosofia. Sarà poi un rompicapo per i suoi continuatori, che dovranno risolvere il problema del rapporto tra il pensiero e la realtà, così drammaticamente e inesorabilmente scissi dal grande e famoso filosofo che è stato Renato Cartesio.
Abbiamo visto quindi che Cartesio (e poi vedremo anche Bacone) ha prodotto nel pensiero occidentale questa enorme frattura fra pensiero e realtà, affermando che la realtà è spiegabile solamente in termini matematici. Le scienze matematiche e quelle fisiche sembrano essere gli unici modi sicuri per spiegare la realtà. Ciò che non è matematicamente spiegabile non è reale? Il fine o lo scopo di una cosa o di un atto non è misurabile quindi non esiste? Nasce qui l’antifinalismo, la realtà non ha più un fine, uno scopo. Vedremo poi che Leibniz non sarà per nulla d’accordo e contesterà decisamente l’antifinalismo.

Agostino e Cartesio

Nell’opera: “La controversia accademica”, Agostino nega allo scetticismo che si possano confutare le verità matematiche o il principio di non-contraddizione o l'autocoscienza umana. Anticipando di oltre un millennio Cartesio, Agostino dirà "Se m'inganno sono". Con la differenza che mentre Agostino voleva dire che, comunque la si pensi, non si può dubitare della propria esistenza, ovvero lo scetticismo non può arrivare a negare ciò che lo pone; in Cartesio invece l'esistenza veniva posta come conseguenza logica del dubbio individuale. La differenza era inevitabile per questa ragione: il "sum" dell'uno voleva dire "comunque sono", nell'altro voleva dire "dunque sono". In Agostino il "sum" voleva essere la controprova di un'esistenza che non dipende da noi, in quanto di origine divina; nell'ateo Cartesio l'esistenza è come una conseguenza logica del Cogito, cioè non è data da qualcuno o da qualcosa di esterno al soggetto, ma si autopone. Con Cartesio nasce la filosofia borghese, quella che non tollera la dipendenza ontologica dalla tradizione ecclesiastica (né d'altra parte quella dalla natura né quella dalla collettività). Con Agostino invece nasce una teologia cristiana agganciata al pensiero realista di Platone.

 

Baruch Spinoza (1632  1677)


Filosofo olandese, è ritenuto a ragione  uno dei maggiori esponenti del razionalismo del XVII  secolo, antesignano dell'Illuminismo e anche  della moderna esegesi biblica.
"Dopo che l’esperienza mi ha insegnato che tutto ciò che per lo più accade nella vita comune è vano e futile … mi sono alla fine deciso a ricercare se non potesse esserci qualcosa che fosse un vero bene e fosse anche comunicabile, e tale che, da solo, cioè quando tutti gli altri fossero respinti, bastasse ad appagare l’animo". (Trattato sull’emendazione dell’intelletto - 1661)

Vita


Baruch Spinoza nacque ad Amsterdam il 24 novembre 1632 da una famiglia di mercanti ebrei, sefarditi di origini spagnole, stabilitisi in Portogallo e poi fuggiti in Olanda in seguito alle pressioni dell'intolleranza religiosa cattolica seguita all'annessione del Portogallo da parte della Spagna.
La sua educazione iniziale si svolse nella comunità israelitica di Amsterdam (detta «Talmud Torah», ovvero «studio della legge), dove poté studiare l'ebraico e i testi biblici, ma anche impratichirsi con i classici latini (Cicerone e Seneca) e cominciare lo studio della scolastica e di filosofi contemporanei come Bacone e Descartes (Cartesio) che insegnava nella vicina Leida. Completò la sua educazione presso un libero pensatore di formazione cattolica, il gesuita Franciscus van den Enden. L'ambiente ebraico in cui crebbe era altrettanto chiuso e conservatore di tanti altri ambienti religiosi rigidamente ortodossi. Spinoza era insofferente della rigida ortodossia ebraica. Per questo motivo si arrivò a uno scontro in cui finì per essere scomunicato e malamente espulso dalla sua comunità nel 1656. Gli venne proibito di frequentare la sinagoga, perfino i suoi parenti lo allontanarono, la sorella tentò di diseredarlo, un membro della comunità particolarmente fanatico tentò di pugnalarlo. Non si sa cosa sia successo tra Spinosa e la sua comunità per arrivare a tanto. Disponiamo solo del documento di 'cherem' un resoconto che fu stilato per l'occasione dai reggenti della comunità, pieno di ingiurie e di feroci maledizioni.
Spinoza lasciò dunque Amsterdam per stabilirsi in un villaggio (Rijnsburg, presso Leyda), quindi trovò sistemazione a L'Aja. In osservanza al precetto rabbinico di imparare un mestiere manuale, Spinoza era diventato molatore e tagliatore di lenti ottiche, cosicché riuscì a mantenersi autonomamente, venendo a rifiutare più volte aiuti in denaro e incarichi professionali (nel 1673 rifiutò di insegnare all'Università di Heidelberg) per salvaguardare, come egli stesso ebbe a dire, la sua libertà di pensiero. Condusse un'esistenza appartata e modesta, guadagnandosi da vivere solo col suo lavoro di tornitura e pulitura di lenti per occhiali. Fu però in stretto contatto epistolare con molti dei maggiori studiosi del suo tempo, come Christian Huyghens e Henry Oldenburg, segretario della Royal Society, e con Jan de Witt, capo dell'opposizione liberale agli Orange.
Fu l’esistenza di un uomo modesto e lieto, raccolto nella meditazione, schivo di onori, sprezzante della ricchezza, del tutto alieno da risentimenti e rancori, ma non privo di quelle passioni simbolo stesso della vita. Da rifiutato era ben consapevole di vivere in una società fanatica e intollerante, ma rimase sempre sereno, deciso a salvaguardare la propria tranquillità interiore, non volendo perdere la cordialità e la cortesia nei confronti di chiunque, ricchi o no, gente semplice o esimi dotti.

Le Opere

La prima opera filosofica composta da Spinoza fu un Trattato su Dio e su l'uomo e la sua felicità (noto ora con il nome di Breve trattato su Dio) che andò perduto e fu ritrovato e pubblicato verso la metà dell'800 in una versione olandese. Nel 1663 fu pubblicato il solo scritto di Spinoza apparso sotto il suo nome, i Princìpi di filosofia cartesiana, con un'appendice di Pensieri metafisici, nei quali venivano accennate le divergenze dell'autore da Cartesio. Nel 1670 comparve anonimo il Trattato teologico-politico che si proponeva di dimostrare che «in una libera comunità dovrebbe essere lecito ad ognuno pensare quello che vuole e dire ciò che pensa». Il libro fu subito condannato sia dalla Chiesa protestante che da quella cattolica. Intanto, egli veniva lavorando alla sua opera fondamentale, l'Ethica dimostrata secondo l'ordine geometrico, che nel 1674 era terminata; tuttavia, Spinoza ne rinviò la pubblicazione perché essa ne avrebbe immediatamente provocato la condanna; sicché l'opera fu pubblicata solo dopo la sua morte, nel 1677, in un volume di Opere postume che comprendeva, oltre l'Ethica, un Trattato politico, un Trattato sull'emendazione dell'intelletto, entrambi incompiuti, e un certo numero di Lettere. Spinoza era ammirato dai filosi di tutta Europa, Leibniz per esempio gli fece visita personalmente.
Morì di tubercolosi a soli 44 anni, il 21 febbraio 1677. Subito dopo la sua morte la sua filosofia venne all’unanimità tacciata di "ateismo" (da ricordare che all'atto della pubblicazione il suo Trattato teologico-politico fu ritenuto empio e blasfemo sia dai cattolici che dai protestanti). Spinoza rappresentò l’uomo della tolleranza e della ricerca instancabile, l’avversario di ogni dogmatismo, di ogni chiusura intellettuale e morale, di ogni ortodossia teologica, ecclesiastica o politica che ostacoli o vieti la libertà di pensare e quella, non meno importante, di esprimere le proprie idee e di insegnare.
Opere principali:
·         Breve trattato su Dio, sull'uomo e la sua felicità (1661);
·         Trattato sull'emendazione dell'intelletto (1661);
·         Trattato teologico-politico (1676);
·         Etica dimostrata in ordine geometrico (1677).

         

Il pensiero di Spinoza

L’opera cardine del pensiero di Spinoza è l’”Ethica ordine geometrico dimonstrata”. L’intento è quello di utilizzare gli strumenti tipici della matematica e della geometria per spiegare Dio. Il metodo che introduce è quello induttivo geometrico. Spinoza sostiene che i vari fenomeni naturali che esistono non sono altro che il “frutto di una necessità razionale assoluta”. Questo per affermare che esiste un Dio e da questo Dio tutto procede in maniera necessaria.
“Posto Dio, tutto procede con la stessa rigorosità con cui, posta la natura del triangolo, tutti i teoremi concernenti il triangolo “procedono” rigorosamente e non possono non procedere”.

Come il triangolo esiste e racchiude in se tutti i teoremi e le caratteristiche matematiche e geometriche che lo compongono, così Dio è un qualcosa che esiste, e non può non esistere, che si impone e da Lui procedono automaticamente e meccanicamente tutte le cose.

Spinoza cerca anche di tentare un distacco emotivo nei confronti di Dio, un atteggiamento obiettivo, non influenzato da sentimenti, ma asettico, rigoroso e puramente razionale. Questa preoccupazione aprirà poi un discorso che dura tutt’oggi e cioè che di Dio è meglio che ne parlino gli atei, perché più credibili e meno influenzati da sentimenti di devozione emotiva e irrazionale (la Fede). Non è raro infatti anche oggi constatare che a parlare di Dio in Parrocchia o in televisione siano invitati spesso filosofi notoriamente atei e razionalisti che garantiscano il fatto di non essere influenzati dalla fede (separazione netta dunque fra Fede e Ragione).
Con Spinoza però si ritorna sul concetto di Sostanza di Aristotele che risponde agli interrogativi sull’essere. Con Cartesio abbiamo la definitiva morte della metafisica perché la realtà si spiega con la realtà senza nessun perché o senso della realtà stessa. Con Spinosa recuperiamo il concetto che la realtà si spiega con Dio. Nella metafisica si parla di sostanze differenti fra loro e gerarchicamente organizzate, con Spinoza si parla di un’unica sostanza: “la sostanza è una ed è Dio”.
Qui si fa riferimento a Cartesio per quanto riguarda la sua affermazione che esistono  due sostanze, il pensiero e la realtà e al bisogno di Spinosa di riconciliarle immaginando l’esistenza di una sola sostanza che le comprende entrambe e che è Dio. “Nella natura nulla è dato oltre la sostanza e le sue affezioni”. La sostanza è Dio, tutto è in Dio. Il Dio di Spinoza è causa di sé (causa sui), è autofondamento (Fondamento di se medesimo). Altro concetto, che c’è anche in Cartesio e in Sant’Anselmo, è che se Dio è l’essere perfetto non gli può mancare l’essere.
Ricordando che Cartesio suddivide la realtà in res cogitans e res extensa. Cioè con  res cogitans intende la realtà psichica a cui lui attribuisce le seguenti qualità: inestensione, libertà e consapevolezza. La res extensa rappresenta invece la realtà fisica, che è estesa, limitata e inconsapevole. Queste due res che erano considerate da Cartesio sostanze in senso secondario, diventano con Spinoza due degli infiniti attributi dell’unica e medesima sostanza.
Non c’è più bisogno di raccordare il pensiero res cogitans con la realtà fisica res extensa, la mente con il corpo, perché tutto quanto sta dentro la sostanza (pensieri, persone, cose, idee, ecc.), la sostanza è Dio, Dio è tutto, Dio è in tutto. Da Dio tutto procede in maniera automatica e meccanica. In Spinoza quindi la visione di Dio è sostanzialmente panteistica.
Il Dio, unica sostanza, di Spinoza è l’origine del mondo, “natura naturans” espressione latina, traducibile con natura naturante, che si trova anche in Giordano BrunoIl verbo "naturare", un neologismo latino, vuole rendere l'azione tipica della natura, ovvero il produrre della natura, la sua stessa realtà.
Dio è quella forza, quella energia che ha dato vita a tutta l’esistenza e a tutto l’esistente. Dio è anche il Dio degli attributi, sostanza infinita perché infiniti sono gli attributi, le qualità, le affezioni. L’uomo ne conosce solo due: la res cogitans e la res extensa (il proprio pensiero e la realtà fisica).
 Il mondo che vediamo si manifesta in “modi”. I modi sono delle specificazioni degli attributi, è la realizzazione di tutto ciò che vediamo e sentiamo in noi e al di fuori di noi. E tutto questo è Dio. Dio è all’origine di tutto, ma è anche dentro tutto. Dio produce le cose e rimane dentro le cose. Dio non è causa trascendente che sta al di sopra, ma una causa immanente, che sta dentro le cose. “Tutto ciò che è, è in Dio e nulla può essere o essere concepito senza Dio”.
Il Dio di Spinoza è antitetico al Dio della tradizione giudaico cristiana, non è un Dio Persona come nel cristianesimo, quindi non è interessato ad un rapporto con l’Uomo, non ha una volontà e un intelletto che si abbassi a quello dell’uomo. Dio è sostanzialmente una forza, una forza che agisce per necessità, è un Dio che non ha provvidenza, cioè non provvede e non crea, non ha suoi scopi (antifinalismo di Spinoza). Dio è una forza che produce, ma non per amore, produce e genera tutto per necessità e non per virtù.
Nascono qui le contrarietà con la sua comunità ebraica che lo radierà dalla comunità. Il 27 luglio 1656 fu data lettura di un testo in ebraico di fronte alla volta della sinagoga dello Houtgracht: un documento di cherem (scomunica), gravissimo e mai revocato che diceva: “I Signori del Mahamad rendono noto che, venuti a conoscenza già da tempo delle cattive opinioni e del comportamento di Baruch Spinoza, hanno tentato in diversi modi e anche con promesse di distoglierlo dalla cattiva strada. … Avendo esaminato tutto ciò in presenza dei Signori Rabbini, i Signori del Mahamad hanno deciso … Che sia maledetto di giorno e di notte, mentre dorme e quando veglia, quando entra e quando esce. Che l'Eterno non lo perdoni mai. Che l'Eterno accenda contro quest'uomo la sua collera e riversi su di lui tutti i mali menzionati nel libro della Legge; che il suo nome sia per sempre cancellato da questo mondo e che piaccia a Dio di separarlo da tutte le tribù di Israele…”. Fu poi rappresentato come Giudeo e Ateo in alcune stampe dell’epoca.

Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646  1716)





Leibniz si preoccupa innanzi tutto di salvaguardare la Filosofia, che si occupa dei principi universali e cerca il fine della realtà, dal pensiero scientifico che si occupa invece di capire come le cose sono fatte e che di conseguenza considera solo le cose matematichezzabili (misurabili con certezza) e non si preoccupa del fine. Egli è convinto che a fondamento della realtà (res cogitans e res extensa) esiste un principio di natura metafisica (e non fisica), una sostanza spirituale che lui chiama “monade”. La monade è in definitiva una sostanza, ma non unica come Spinoza, ma tante e infinite monadi, tante quanti sono gli enti. Ogni ente è una monade e una monade è una forza originaria, una sostanza originaria chiusa in se, distinta dalle altre, capace d’azione, che non comunica con le altre che però vengono ordinate sapientemente da Dio che ne ricava una “armonia prestabilita”, cioè il migliore dei mondi possibile.

«la monade non è altro che una sostanza semplice che entra nei composti; semplice cioè senza parti».
La monade di Leibniz non è l’atomo fisico ma l’atomo metafisico, è puro pensiero, è un essere completo e indistruttibile, centro di attività e di forza che contiene nella sua natura tutti i proprî predicati, quindi tutta la propria storia; ogni monade è indipendente rispetto alle altre e si svolge chiusa in sé stessa e tuttavia in armonia, con lo sviluppo delle infinite altre monadi create da Dio e in ciascuna si rispecchia tutto l’universo che essa esprime secondo la propria posizione. 
Pensiamo di prendere due orologi, uno che rappresenta il pensiero (la mente), l’altro la realtà (il corpo). In Cartesio un orologio influenzerebbe l’altro e viceversa grazie alla ghiandola pineale. Per Leibniz invece, usando il concetto di monade, questi due orologi sono creati dalla mente perfetta di Dio che li ha fatti talmente perfetti, combinati e sintonizzati, che, pur non comunicando fra loro, lavorano automaticamente e meravigliosamente all’unisono.
A Gottfried Leibniz, matematico, si deve il termine "funzione" (utilizzato per la  prima volta in un testo di matematica a stampa nel 1692) che egli usò per individuare le proprietà di una curva.

A Leibniz, assieme a Isaac Newton, vengono generalmente attribuiti l'introduzione e i primi sviluppi del calcolo infinitesimale, in particolare il concetto di integrale, per il quale si usano ancora oggi molte sue notazioni. È considerato il precursore dell'informatica e del calcolo automatico: fu inventore di una calcolatrice meccanica detta Macchina di Leibniz.





La concezione finalistica dell’universo

di Domenico Massaro – Enciclopedia Treccani

Nel segno dell’armonia


Leibniz è una delle personalità più versatili e complesse della modernità, che coltivò interessi molteplici, dalla filosofia alla matematica, dalla storia alla logica, alla politica. In un’epoca segnata da crisi e lacerazioni, nutrì con tenacia il sogno della conciliazione tra le religioni e dell’unificazione dei popoli d’Europa sotto le insegne di un rinnovato impero universale di tipo medievale. Obiettivi impossibili da raggiungere, ma di un valore simbolico che trascende il momento storico in cui furono elaborati (tanto da risultare in gran parte ancora oggi suggestivi). E sempre sotto il segno dell’armonia si colloca l’altro grande disegno che impegnò il filosofo per tutta la vita: l’unificazione del meccanicismo proprio dell’età a lui contemporanea (la natura retta da rapporti di causa-effetto) con il finalismo degli Antichi (la natura ordinata da una Mente in vista del raggiungimento di un fine prestabilito: per es. il Sole creato apposta per consentire la vita).

Scienza ed empietà


Sin da giovane, Leibniz fu attratto dalla filosofia, che egli intende in modo pratico come difesa della fede in Dio e, più in generale, come maestra di vita. Un progetto che culminerà nella Teodicea, l’opera che sin dal titolo proclama l’intento di giustificare razionalmente la bontà di Dio e la libertà umana, due aspetti che molti intellettuali del tempo - come Pierre Bayle, autore del celebre Dizionario storico-critico - mettevano in discussione a causa della presenza del male, sia morale che fisico (ingiustizie, vizi e peccati; ma anche terremoti, alluvioni, disastri naturali). Una giustificazione che il filosofo ritiene tanto più necessaria dopo Cartesio. Quest’ultimo, infatti, con la nota distinzione tra res extensa e res cogitans, aveva assecondato, secondo Leibniz, la tendenza atea che si cela nella scienza moderna, dominata dalla pretesa di spiegare l’universo come una grande macchina in cui non c’è posto per Dio, ma solo per i corpi, le forme, le figure e il moto (caratteri geometrici, come aveva detto Galileo).
Una tendenza che non a caso sfociava nella negazione del finalismo, cioè dell’idea che anche il più piccolo degli esseri (un insetto) non fosse l’insignificante frutto del caso, ma avesse un valore derivante dal fatto che il Creatore lo aveva scelto e dotato di tutte le perfezioni necessarie alla propria vita e all’esistenza degli altri esseri, in un sistema integrato e armonico.
Empie sono, dunque, la scienza e la filosofia moderne agli occhi di Leibniz, come dimostrano gli esiti estremi raggiunti con Hobbes, secondo cui l’universo è popolato solo da corpi, e con Spinoza, che identifica Dio e Natura in una visione deterministica che non lascia spazio alcuno alla considerazione delle cause finali (v. B. Spinoza, Sul concetto di causa finale).


Ridare la vita al mondo


Leibniz, che pure accoglie tanti dei risultati empirici della scienza moderna, concepisce tuttavia il progetto di una ridefinizione dell’universo in controtendenza con la modernità. A tal fine interpreta la natura non sul modello quantitativo-geometrico propugnato dai novatores (da Galileo in poi), ma ex analogia hominis: l’organismo umano (la biologia) diviene il paradigma di conoscenza per la scienza fisica (v. G.W. Leibniz, L’autore intelligente della natura). Siamo davanti a una svolta che segnala, per la prima volta, quel senso d’insofferenza per la ragione geometrica e calcolatrice che nel Novecento si esprimerà con maggiore forza e vivacità.

Una svolta che avviene sotto il segno della rivalutazione delle cause finali e della ripresa di Platone, in particolare del Fedone, un dialogo che Leibniz considera "meravigliosamente conforme ai propri sentimenti", specie nel passaggio in cui Socrate (personaggio principale del dialogo) se la prende con Anassagora, accusandolo di naturalismo. Anassagora, infatti, dopo aver ammesso la presenza di una Mente che tutto ordina (il Nous), poi se ne dimentica e quando deve spiegare i fenomeni fisici torna a parlare di acqua o aria come loro unica causa: come a dire – nota ironicamente Leibniz – che costui, dopo aver ammesso che Socrate agiva sempre sulla base di motivazioni razionali, poi spiegava il suo stare in carcere come effetto dell’avere un paio di gambe in grado di muoversi!


Il migliore dei mondi possibili


La prospettiva finalista innerva tutto il sistema leibniziano, che si dispiega in opere di grande impegno teorico, quali il Discorso di Metafisica (1686), i Nuovi Saggi sull’intelletto umano (1705), la Teodicea (1710), la Monadologia(1714). Da essi si desume la tesi centrale di Leibniz, secondo cui il nostro è il migliore dei mondi possibili. Dal punto di vista logico, osserva il filosofo, è perfettamente legittimo pensare che il mondo in cui abitiamo non sia né unico né necessario e che perciò possa ritenersi uno dei tanti che Dio avrebbe potuto creare. Prima della creazione, nell’intelletto divino c’erano tutti i mondi logicamente possibili (non contraddittori). Tra di essi, Dio ha scelto di far venire all’esistenza il migliore. Il migliore, ma non il perfetto, cioè immune dal male, perché sarebbe stato identico a Dio stesso (impossibile).
Dio ha scelto il migliore secondo ragione, poiché la libertà divina non è arbitrio, ma razionalità, anche se noi spesso non riusciamo a scorgerla. Dio non fa nulla a caso, ma agisce razionalmente in vista di un fine (il bene, causa finale).
Contrariamente agli altri filosofi della modernità, Leibniz ritiene che se le cose esistono è perché hanno uno scopo, quello voluto dal Creatore. E, dunque, se vogliamo comprendere il mondo non possiamo dimenticare di ricercare la causa finale di ogni cosa. Quelle che la scienza definisce leggi di natura, secondo Leibniz, non sono altro che gli scopi assegnati da Dio alle cose e alla natura nel suo complesso. Una natura che, dunque, va intesa come forza viva (‘energia’), costituita da tanti centri di forza semplici, immateriali e autosufficienti (le ‘monadi’, unità energetiche). Una nuova visione, che mentre esalta finalismo e libertà, non nega del tutto il meccanicismo, inteso come il metodo che consente agli scienziati di descrivere quello che è però soltanto l’aspetto superficiale delle cose e che, dunque, va subordinato e integrato con la prospettiva più profonda rappresentata dalle cause finali, vere forze motrici dell’universo.

Commento di don Claudio Crescimanno


Dopo aver tentato di comprendere la posizione e l’orientamento mentale e filosofico di questi ultimi autori, facciamo alcune considerazioni. Questi autori sembrano proporre una filosofia che sfida il più elementare e comune buon senso.
A suo tempo, a proposito del realismo dei filosofi greci avevamo già fatto cenno a Jean-Jacques Rousseau (che poi vedremo) dicendo che questi esordisce in uno dei suoi lavori affermando che “per capire la realtà dobbiamo per prima cosa togliere di mezzo i fatti”, cioè la realtà stessa. Questo lo avevamo rilevato per evidenziare il grande salto che ci sarebbe stato tra una filosofia completamente appoggiata alla realtà, o meglio che parte dalla realtà (Aristotele, ecc.) ad una filosofia moderna che prende le distanze dalla realtà per capirla meglio. Per capire la realtà, per prima cosa dobbiamo togliere di mezzo la realtà.
Guardiamo questa svolta della filosofia prendendo come punto di osservazione il passato, cioè la sua visione realista, quella della filosofia di Aristotele, quella della patristica e della scolastica fino a san Tommaso.
La filosofia realista si concentra su tre temi o oggetti: Dio, L’Uomo, il mondo. La prima cosa a cui il filosofo presta attenzione e conosce è il mondo, si imbatte nel mondo, sperimenta il mondo, tocca la realtà del mondo (si sporca le mani in esso). Osservando il mondo impara a conoscerlo. A partire da ciò che è, e dai presupposti per cui è ciò che è, postula e poi dimostra l’esistenza e gli attributi fondamentali di Dio (motore immobile, intelligenza creatrice e architetto dell’Universo, ecc.). Questo lo aiuta a capire poi l’Uomo e lo vede come l’essere più vicino a Dio e il mondo come base per la vita dell’Uomo e punto di osservazione della realtà visibile e non visibile. Dal Mondo conosco Dio, da Dio conosco l’Uomo.
Con il modernismo si ha una rivoluzione epocale. Viene azzerato tutto ciò che è stato pensato, ponderato e dimostrato prima, per mettere in piedi una diversa filosofia. Rifiuto totale e senza mezzi termini della filosofia classica per la quale ora non c’è più posto. Si riparte d’accapo e non si utilizzano più gli encomiabili sforzi precedenti per costruire mattone su mattone la verità con ragionamenti assodati e verificati dai più illustri pensatori, filosofi e teologi, come si era fino ad ora fatto. Si butta via tutto, il bambino insieme all’acqua sporca.
La filosofia moderna non è più lo sviluppo delle tappe precedenti, perché ora è il processo conoscitivo che è completamente nuovo e rivoluzionario. Non si parte più dal mondo, dalle cose, cioè dalla realtà così come ci appare e come tocchiamo con mano e con i sensi, ma dal pensiero dell’uomo. L’uomo è una sorta di uomo dimezzato del quale consideriamo una sua sola componente: il pensiero. È una vera e propria rivoluzione antropologica. È il pensiero dell’uomo che immagina Dio, è il pensiero dell’uomo che determina il mondo e le cosa. È il pensiero che va a cercare degli oggetti che si proporzionino a lui. Non è più la realtà che si impone alla mia conoscenza attraverso a come è fatto il mondo e che mi fa capire che c’è qualcuno che lo ha fatto, perché il mondo non ha in se la ragione necessaria e sufficiente della propria esistenza. Dalle caratteristiche con cui è fatto il mondo (la sua bellezza, la sua bontà, la sua verità, ecc.) capisco alcune caratteristiche di Colui che l’ha fatto.
Adesso non è più così, il pensiero proporziona a se la realtà che gli sta intorno, decide lui cosa è e cosa non è. Non è più la realtà, quella visibile e quella invisibile che si impone a me per ciò che è. Ora è il mio pensiero (non io come persona composta da anima, corpo, sensi e sensazioni, affetti, coscienza ecc.), solo il mio pensiero è colui che proporziona a se gli oggetti della conoscenza.
Dio non ha più una sua fisionomia, conosciuta attraverso le cose che mi parlano di Dio. Per esempio se le cose sono belle, Colui che le ha fatte sarà il Bello per eccellenza, cioè la Bellezza. Ora Dio ha la fisionomia che il pensiero gli da. A Cartesio Dio serve come garante della sperimentabilità delle cose e questa per lui è la fisionomia di Dio. Per Spinoza Dio è la Sostanza che poi si disperde e si scioglie nelle singole sostanze che poi sono l’unica Sostanza, una unica cosa presente e realizzata nelle cose che io tocco e io vedo.
Quindi Dio ha la fisionomia che gli do io. Il mondo ha la fisionomia che gli do io. Un oggetto che ho davanti, per esempio un bicchiere, è vero se per il mio pensiero è vero. Non come prima che lui c’è e il mio pensiero lo coglie e quando io non ci sono lui è sempre li ed esiste ugualmente anche senza la mia presenza. Ora il bicchiere ha diritto di esistenza e di cittadinanza nella misura, nel tempo e nel modo che il mio pensiero gli consente di essere e di stare. La ricerca della Verità che tanto aveva appassionato gli antichi è ora un abito fuori moda.



Il Coraggio della Verità (Joseph Ratzinger)


Il coraggio della Verità e la gioia nella Verità sono connotati essenziali della fede cristiana. Solo di qui possiamo nuovamente comprendere il compito missionario della Chiesa. È solo di qui che esso riceve il suo diritto e il suo senso: l’uomo ha bisogno della Verità, il mondo ha bisogno della Verità. Senza di essa, la nostra vita rimane non vera: cioè perduta e senza salvezza. La Verità, che ci viene donata, non è nostra creazione. Non ce ne possiamo vantare, ma nemmeno ci è permesso nasconderla per falsa modestia. Noi derubiamo il mondo, per così dire, della più importante materia prima, di cui esso ha bisogno per vivere, quando seppelliamo angosciati la Verità, come ha fatto quel servo di cui parla il Vangelo, il quale nascose il suo talento invece di farlo fruttare […].
I nostri limiti e quelli delle parole umane non devono indurci a cadere nel relativismo, che rinuncia alla Verità. Con Gesù Cristo, Dio si è rivelato e ci ha fatto dono della Verità: Dio vuole la salvezza di tutti e ci vuole al servizio della salvezza proprio come lampade della Verità, accese in questo mondo (così come questo mondo è oggi). Dobbiamo risvegliare la consapevolezza di questa grande responsabilità che ci è stata affidata. Essa deve riempirci di gioia per il fatto che, come testimoni della Verità, noi possiamo, dobbiamo, cooperare alla salvezza del mondo. (Tratto da “Omelie romane”, 1983, contenute in “Collaboratori della Verità” dell’allora cardinale Joseph Ratzinger ed. San Paolo)

Dall’enciclica “Veritatis splendor”

di GIOVANNI PAOLO II, 6 agosto, festa della Trasfigurazione del Signore, dell'anno 1993
Introduzione
Lo splendore della verità rifulge in tutte le opere del Creatore e, in modo particolare, nell'uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (cf Gn 1,26): la verità illumina l'intelligenza e informa la libertà dell'uomo, che in tal modo viene guidato a conoscere e ad amare il Signore. Per questo il salmista prega: «Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto» (Sal 4,7).

Gesù Cristo, luce vera che illumina ogni uomo.
Chiamati alla salvezza mediante la fede in Gesù Cristo, «luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9), gli uomini diventano «luce nel Signore» e «figli della luce» (Ef 5,8) e si santificano con «l'obbedienza alla verità» (1 Pt 1,22).
Questa obbedienza non è sempre facile. In seguito a quel misterioso peccato d'origine, commesso per istigazione di Satana, che è «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44), l'uomo è permanentemente tentato di distogliere il suo sguardo dal Dio vivo e vero per volgerlo agli idoli (cf 1 Ts 1,9), cambiando «la verità di Dio con la menzogna» (Rm 1,25); viene allora offuscata anche la sua capacità di conoscere la verità e indebolita la sua volontà di sottomettersi ad essa. E così, abbandonandosi al relativismo e allo scetticismo (cf. Gv 18, 38), egli va alla ricerca di una illusoria libertà al di fuori della stessa verità. Ma nessuna tenebra di errore e di peccato può eliminare totalmente nell'uomo la luce di Dio Creatore. Nella profondità del suo cuore permane sempre la nostalgia della verità assoluta e la sete di giungere alla pienezza della sua conoscenza. Ne è prova eloquente l'inesausta ricerca dell'uomo in ogni campo e in ogni settore. Lo prova ancor più la sua ricerca sul senso della vita. Lo sviluppo della scienza e della tecnica, splendida testimonianza delle capacità dell'intelligenza e della tenacia degli uomini, non dispensa dagli interrogativi religiosi ultimi l'umanità, ma piuttosto la stimola ad affrontare le lotte più dolorose e decisive, quelle del cuore e della coscienza morale.
Ogni uomo non può sfuggire alle domande fondamentali: Che cosa devo fare? Come discernere il bene dal male? La risposta è possibile solo grazie allo splendore della verità che rifulge nell'intimo dello spirito umano, come attesta il salmista: «Molti dicono: "Chi ci farà vedere il bene?". Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto» (Sal 4,7). La luce del volto di Dio splende in tutta la sua bellezza sul volto di Gesù Cristo, «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), «irradiazione della sua gloria» (Eb 1,3), «pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14): Egli è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Per questo la risposta decisiva ad ogni interrogativo dell'uomo, in particolare ai suoi interrogativi religiosi e morali, è data da Gesù Cristo, anzi è Gesù Cristo stesso, come ricorda il Concilio Vaticano II: «In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro, e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione». Gesù Cristo, «la luce delle genti», illumina il volto della sua Chiesa, che Egli manda in tutto il mondo ad annunciare il Vangelo ad ogni creatura (cf Mc 16,15). Così la Chiesa, Popolo di Dio in mezzo alle nazioni, mentre è attenta alle nuove sfide della storia e agli sforzi che gli uomini compiono nella ricerca del senso della vita, offre a tutti la risposta che viene dalla verità di Gesù Cristo e del suo Vangelo. È sempre viva nella Chiesa la coscienza del suo «dovere permanente di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto».
I Pastori della Chiesa, in comunione col Successore di Pietro, sono vicini ai fedeli in questo sforzo, li accompagnano e li guidano con il loro magistero, trovando accenti sempre nuovi di amore e di misericordia per rivolgersi non solo ai credenti, ma a tutti gli uomini di buona volontà. Il Concilio Vaticano II rimane una testimonianza straordinaria di questo atteggiamento della Chiesa che, «esperta in umanità», si pone al servizio di ogni uomo e di tutto il mondo.
La Chiesa sa che l'istanza morale raggiunge in profondità ogni uomo, coinvolge tutti, anche coloro che non conoscono Cristo e il suo Vangelo e neppure Dio. Sa che proprio sulla strada della vita morale è aperta a tutti la via della salvezza, come ha chiaramente ricordato il Concilio Vaticano II, che così scrive: «Quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e tuttavia cercano sinceramente Dio, e sotto l'influsso della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna». Ed aggiunge: «Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che senza colpa da parte loro non sono ancora arrivati a una conoscenza esplicita di Dio, e si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta. Poiché tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro, è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione al Vangelo, e come dato da Colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita».
L'oggetto della presente Enciclica
Sempre, ma soprattutto nel corso degli ultimi due secoli, i Sommi Pontefici sia personalmente che insieme al Collegio episcopale hanno sviluppato e proposto un insegnamento morale relativo ai molteplici e differenti ambiti della vita umana. In nome e con l'autorità di Gesù Cristo, essi hanno esortato, denunciato, spiegato; in fedeltà alla loro missione, nelle lotte in favore dell'uomo, hanno confermato, sostenuto, consolato; con la garanzia dell'assistenza dello Spirito di verità hanno contribuito ad una migliore comprensione delle esigenze morali negli ambiti della sessualità umana, della famiglia, della vita sociale, economica e politica. Il loro insegnamento costituisce, all'interno della tradizione della Chiesa e della storia dell'umanità, un continuo approfondimento della conoscenza morale.
Oggi, però, sembra necessario riflettere sull'insieme dell'insegnamento morale della Chiesa, con lo scopo preciso di richiamare alcune verità fondamentali della dottrina cattolica che nell'attuale contesto rischiano di essere deformate o negate. Si è determinata, infatti, una nuova situazione entro la stessa comunità cristiana, che ha conosciuto il diffondersi di molteplici dubbi ed obiezioni, di ordine umano e psicologico, sociale e culturale, religioso ed anche propriamente teologico, in merito agli insegnamenti morali della Chiesa. Non si tratta più di contestazioni parziali e occasionali, ma di una messa in discussione globale e sistematica del patrimonio morale, basata su determinate concezioni antropologiche ed etiche. Alla loro radice sta l'influsso più o meno nascosto di correnti di pensiero che finiscono per sradicare la libertà umana dal suo essenziale e costitutivo rapporto con la verità. Così si respinge la dottrina tradizionale sulla legge naturale, sull'universalità e sulla permanente validità dei suoi precetti; si considerano semplicemente inaccettabili alcuni insegnamenti morali della Chiesa; si ritiene che lo stesso Magistero possa intervenire in materia morale solo per «esortare le coscienze» e per «proporre i valori», ai quali ciascuno ispirerà poi autonomamente le decisioni e le scelte della vita.


La Rivoluzione moderna
·     PRESENTAZIONE

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